Il prossimo 24 settembre si festeggiano cento anni dalla nascita di Ettore Bastianini, ancora oggi idolatrato dai molti che ne hanno memoria per averlo visto sulle scene, o che si adoperano per tramandarne il ricordo attraverso studi e scritti che non fanno altro che confermare l’alone di leggenda che continua ad avvolgere la sua voce di baritono. Non sempre la critica seppe comprendere il valore dal suo canto, ma le dure parole rivoltegli in molte occasioni da Rodolfo Celletti sono state, in anni recenti, mitigate da altri studiosi, più analiticamente disposti ad analizzare il “fenomeno” Bastianini tentando di superare, con argomentazioni ragionate, luoghi comuni che comunque non hanno mai, neanche in minima parte, scalfito l’amore che il pubblico ha dimostrato ad una delle voci più preziose del Novecento.
Pochi altri baritoni possono avvalersi, infatti, dei tanti libri e scritti che hanno celebrato la sua voce. A partire dal grande volume dedicatogli da Marina Boagno (oggi purtroppo introvabile e non più ristampato), non a caso con un sottotitolo emblematico: una voce di bronzo e di velluto. L’Associazione Internazionale Culturale Musicale Ettore Bastianini, attivissima nel percorrere ogni traccia della sua carriera con un amore tanto incondizionato da far pensare quanto alto sia il segno lasciato dalla sua arte vocale, si è mossa, in vista dell’anniversario di quest’anno, per curare una nuova pubblicazione, da pochi giorni in libreria, dal sottotitolo perfino eccessivo, Ettore Bastianini. La più bella voce al mondo (Zecchini Editore): un corposo volume che raccoglie interessantissimi saggi e una cronologia aggiornata. Ne sono valenti curatori Maurizio Modugno, Luisella Franchini e Valerio Lopane, con il contributo di diversi studiosi. Un volume imperdibile per chi voglia studiare l’importanza che questa voce straordinaria ha avuto e continua ad avere, ancora oggi, mostrando una modernità che supera il tempo.
Ma non solo. Gli ultimi anni hanno visto far luce anche sugli aspetti privati dell’artista, in vita riservato ma la cui personalità – baciata dal successo ma anche dalla sofferenza della malattia che bloccò il culmine della sua carriera fino a condurlo alla prematura morte – meglio si comprende leggendo due pubblicazioni: La finestra sul lago. Ricordo di Ettore Bastianini, ma soprattutto Il mio pensiero per te. La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle lettere a Manuela Bianchi Porro (a cura di Luisella Franchini e Valerio Lopane, Cantagalli Editore), con epistolari inediti fra il cantante e Manuela Bianchi Porro, l’allora giovane e bella ballerina (ancora oggi Signora elegante e distinta) che Bastianini amò fino agli ultimi giorni della sua vita, ormai malato ma pronto a prendere in mano la sua vita nell’approssimarsi della morte, chiudendosi in un isolamento che ha contraddistinto un uomo schivo e riservato, che amava il palcoscenico al punto da rinunciare a una operazione alle corde vocali che gli avrebbe forse allungato l’esistenza privandolo però del privilegio di solcare le scene, che amava più di ogni altra cosa.
Di origini umili, il giovane Ettore, nato a Siena il 24 settembre 1922, città vicina al suo sentire (sempre coinvolgo in prima persona nella Contrada della Pantera, alla quale apparteneva, la quale il prossimo 24 settembre gli renderà tutti gli onori a Siena, assieme al Comune e alla benemerita e già sopracitata Associazione Ettore Bastianini), non ebbe vita facile. Iniziò la carriera come basso, durata dal 1945 al 1951. Un inizio che probabilmente lo avrebbe condannato all’anonimato se diversi incontri, fra cui quello, fondamentale, con Luciano Bettarini, non lo avessero convinto sull’opportunità di cambiare registro passando alla corda di baritono. Da lì in poi la carriera prese il volo e dopo alcune prove verdiane, in parti come Germont nella Traviata e protagonista in Rigoletto, ci furono alcuni significativi approcci al repertorio russo (eseguito a quel tempo in italiano), a Firenze, nella Dama di picche e in Mazeppa di Caikovskij e in Guerra e pace di Prokof’ev.
Ad inizio degli anni Cinquanta volò anche in America, dove debuttò al Metropolitan di New York (come Enrico in Lucia di Lammermoor nel 1954), ma nel frattempo i più grandi teatri italiani si assicurarono la sua presenza, a partire dalla Scala, che dopo un Eugenio Onegin nel 1954 lo consacrò l’anno successivo nella leggendaria Traviata con Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, la regia di Luchino Visconti e la direzione di Carlo Maria Giulini. Da quel momento il palcoscenico scaligero, come quelli del Comunale di Firenze e dell’amatissimo San Carlo di Napoli, senza dimenticare le stagioni estive dell’Arena di Verona, divennero i feudi di una carriera ormai intensissima, che si divideva fra significative puntate americane e le numerose presenze sulla scene della Staatsoper di Vienna, altro teatro in cui fu sempre amatissimo e che mai gli negò l’affetto che invece sembrò incrinarsi con Milano, quando le défaillances di una recita di Rigoletto del 1962, pochi mesi prima che a Vienna gli venisse diagnosticata la malattia, ruppe momentaneamente un legame comunque mai infrantosi, siglato da serate memorabili in quelli che sono da sempre stati i suoi ruoli simbolo, sia del repertorio verdiano e verista, avvicinando opere a quel tempo rare, come Poliuto di Donizetti e La battaglia di Legnano di Verdi, entrambe in leggendarie esecuzioni per le inaugurazioni scaligere del 7 dicembre, rispettivamente nel 1960 e 1961.
Negli ultimi anni fece anche tournée in Giappone, dove fu ammirato, anche quando la voce risentiva degli effetti galoppanti della malattia. Il 1965 fu l’anno degli addii, con le ultime recite nei panni del Marchese di Posa in Don Carlo, prima nell’amata Vienna e poi al Met. La morte sopraggiunge a Sirmione, il 25 gennaio del 1967, a soli quarantaquattro anni di età.
Veniamo ora, più nel dettaglio, al repertorio. L’arco della carriera fu ventennale, comprendente anche gli anni che spaziano dalle prime esperienze sulle scene (si esibì dal 1940 in alcuni concerti, ma il debutto in opera avvenne a Ravenna nel 1945, come Colline nella Bohème di Puccini) fino al marzo del 1951, anno in cui abbandonò la corda di basso interpretando ancora Colline al Teatro Alfieri di Torino, in una Bohème diretta da Gianandrea Gavazzeni. Ci fu una pausa di sette mesi dopo queste tre recite del maggio del 1951, poi il primo ruolo baritonale nel 1952, quello di Giorgio Germont nella Traviata, messa in scena al Teatro dei Rinnovati, nella sua Siena.
I sei anni che lo videro cantare nella corda di basso non vanno considerati come fondamentali per la gloria di Bastianini. Gli stessi ruoli affrontati fanno capire come, da basso, probabilmente non avrebbe dato valore al velluto prezioso della sua vocalità, costringendolo in ruoli di “mezzo basso”. In Rossini fu Don Basilio nel Barbiere di Siviglia, e in Verdi, quello che divenne il compositore più frequentato nella fase della grande carriera baritonale, fu Padre Guardiano, Sparafucile, Ferrando e, in Aida, Ramfis e il Re, ma mai avrebbe potuto assurgere ai grandi ruoli se avesse perseverato nella corda di basso. Qualche importante parte di basso tuttavia ci fu, come Mefistofele nel Faust di Gounod e Alvise Badoero nella Gioconda, ma lo sviluppo della carriera, soprattutto in ambito verdiano, diventò decisamente più interessante quando ci fu il cambio di corda.
Certamente Bastianini, divenuto baritono, negli anni d’oro, ma anche nei momenti più difficili della sua carriera, quando la malattia cominciava a fare il suo corso influendo sulla voce, elesse o trovò in alcuni personaggi quella che era la sigla distintiva della sua vocalità e personalità: ossia l’aura di nobiltà che, applicata alla fierezza del portamento scenico e a una voce di sovrumana bellezza, donava al suo essere interprete una dimensione psicologica di eleganza che lui riusciva a trasmettere anche quando avvicinava personaggi cosiddetti vilain. Un velo di dignità tragica, velata di malinconia, rendeva tanto uniche le sue interpretazioni di personaggi verdiani, assieme alla innegabile virilità del timbro.
Verdi fu certo l’autore più frequentato da Bastianini, anche se, va detto, diversi ruoli mancano all’appello fra quelli che oggi fanno parte del passaporto del tipico baritono verdiano. Certo ci furono, come già ricordato, il personaggio di Rolando nella Battaglia di Legnano, opera per quel tempo rara, e il primo Verdi è rappresentato anche da Nabucco e da Don Carlo in Ernani, ma alla lista mancano opere come Macbeth e Simon Boccanegra che sempre fanno parte dell’iter interpretativo di chi è che solitamente definito baritono verdiano a tutto tondo.
Per i grandi personaggi baritonali della cosiddetta “trilogia popolare”, Bastianini regalò letture rimaste storiche. Per il Germont di Traviata c’è anche il ricordo della già citata esecuzione scaligera del 1955, ma un ruolo parimenti eseguito fu da subito quello del protagonista in Rigoletto, poi arrivò il Conte di Luna del Trovatore. Subito dopo La traviata senese del gennaio 1952, che lo vide passare da basso a baritono, ancora a Siena, questa volta nel luglio dello stesso anno, interpretò infatti per la prima volta il ruolo del gobbo verdiano, mai più abbandonato nel corso della sua carriera, anche dopo il citato e contrastato esito scaligero dell’aprile 1962.
Per numero di recite, fra le parti verdiane più eseguite, spicca quella del Conte di Luna nel Trovatore, che a partire delle recite del Met del dicembre 1953 si ripresentò più volte nella parabola della sua carriera, in un crescendo di produzioni che, oltre al noto film Rai del 1957, lo videro trionfare anche al Festival di Salisburgo nel 1962 con la direzione di Herbert von Karajan, per poi inaugurare la Scala nel dicembre di quello stesso anno riconquistando i favori il pubblico scaligero dopo l’esito incerto di Rigoletto.
A ruota, passando in rassegna le parti verdiane più amate ed eseguite, seguono due personaggi nei quali Bastianini, oltre alla preziosità della sua voce, riusciva a connotarne i caratteri mettendoci del suo, ossia Renato in Un ballo in maschera e il Marchese di Posa in Don Carlo, affrontati in molte produzioni: il primo, marito tradito, desideroso di vendetta ma che anche evoca i momenti più dolci della sua vita; il secondo un idealista, uomo di spirito superiore imbevuto di desiderio di libertà. A entrambi questi personaggi Bastianini seppe infondere la sigla distintiva di una personalità attraverso la quale si ammiravano l’emotività composta, quasi distaccata, contrassegnata da un elegante portamento. Bastianini cominciò ad essere Renato dalle recite scaligere del 1956 alla Scala e riprese la parte anche al fianco di Maria Callas, ancora sul palcoscenico della Scala, per il 7 dicembre 1957, per poi portarlo in America e molte volte su uno dei suoi palcoscenici favoriti: quello della Staatsoper di Vienna (nel 1958, con la direzione di Dimitri Mitropoulos). Ancora a Vienna, fu diverse volte il Marchese di Posa nel Don Carlo, debuttato per la prima volta al Met di New York nel 1955; fu proprio con questo ruolo (cantato anche a Salisburgo con la direzione di Karajan), che si congedò, ormai malato, da Vienna e dalle scene del Met, con l’ultima sua malinconica recita del dicembre 1965.
Fra i ruoli baritonali verdiani non vanno dimenticati, insieme ad Amonasro in Aida e a Jago in Otello, quello particolarmente favorito di Don Carlo di Vargas nella Forza del destino, per la prima volta avvicinato in Germania nel 1953, ad Augusta, ma ripreso in leggendarie edizioni nei suoi teatri d’elezione, come la Scala e la Staatsoper di Vienna, senza dimenticare la nota incisione discografica romana del 1955 e le recite napoletane del marzo 1958, al San Carlo, riprese in un video che ha fatto epoca, al fianco di Renata Tebaldi, Franco Corelli e Boris Christoff.
Lasciando Verdi, nell’ambito del repertorio eseguito, si contano interessanti incursioni in ambito francese, soprattutto con Escamillo in Carmen e Zurga nei Pescatori di perle, senza dimenticare Valentin in Faust e Athanaël in Thaïs, mentre per il belcanto del primo ottocento italiano alcuni ruoli cardine donizettiani sono il baritono grand-seigneur Alfonso XI nella Favorita, quello vilain Enrico Ashton in Lucia di Lammermoor e il più raro approccio, almeno per quell’epoca, alla parte di Severo nella ripresa del Poliuto alla Scala.
Bellini lo vide presente nei Puritani come Riccardo e nel Pirata come Ernesto, alla Scala, quest’ultimo appuntamento al fianco di Franco Corelli e Maria Callas. In Rossini fu più volte interprete di Figaro nel Barbiere di Siviglia, ma è certo che, per la conformazione della sua voce e per i tempi in cui si trovò a operare, grande fetta nella scelta del repertorio toccò all’opera verista, con Compare Alfio in Cavalleria rusticana e Tonio in Pagliacci.
Scarpia in Tosca e Michele in Tabarro sono gli approcci più interessanti in ambito pucciniano, ma tornando a quello verista, oltre al bieco e sinistro Barnaba della Gioconda, spicca un ruolo amato e più volte eseguito da Bastianini sui più grandi palcoscenici del mondo, ossia quello di Gérard, in Andrea Chénier, parte in cui l’impeto tribunizio dell’ex-servo, che diventa rivoluzionario ma acquista nobiltà aiutando l’amico rivale, trovò sempre in Bastianini quella signorilità in grado di umanizzare le pieghe di un personaggio che grazie a lui perdeva ogni scontata esternazione verista per donargli quell’anelito di giustizia e fratellanza espresso in un “Nemico della patria” che è difficile immaginare migliore.
Se ai ruoli fin qui elencati si aggiungono, da un lato le significative e già citate aperture al repertorio russo, eseguito in italiano, dall’altro l’isolato esperimento händeliano con Lica in Eracle, ossia Hercules alla Scala, si comprende come la fetta maggiore del repertorio finisca per gravitare su Verdi.
Detto questo, probabilmente ancora oggi Bastianini non varierebbe le scelte operate nell’ambito del repertorio, piuttosto, forse, le arricchirebbe di parti a quel tempo poco eseguite, in opere verdiane soprattutto (mancano all’appello, infatti, I due Foscari, Luisa Miller, Macbeth, Simon Boccanegra e Monforte nei Vespri siciliani, che restano nei nostri sogni irrealizzati), rendendo il suo approccio a Verdi più completo di quando già non lo sia stato.
Ettore Bastianini portò avanti la sua carriera in anni in cui, dopo il declino di Gino Bechi e di Tito Gobbi e la morte di Leonard Warren, i baritoni certo non mancavano. Basti pensare a nomi quali Aldo Protti, Paolo Silveri, Giuseppe Taddei, Gian Giacomo Guelfi, Robert Merrill, Cornell MacNeil e Anselmo Colzani. Eppure Bastianini aveva una marcia in più, donatagli da due aspetti, legati alla voce come alle doti d’interprete. La voce innanzitutto, di sovrumana bellezza, omogenea, piena nei centri, calda, scura, brunita e morbida, elastica in acuti ghermiti con energia. Cantava sulla parola, che scolpiva nel marmo. Un canto bronzeo e vellutato, come appunto spesso viene ricordato.
Il portamento scenico, ma soprattutto il gusto, per quanto rapportato al suo tempo, in anni in cui le voci erano ricche di armonici, possenti e imperiose nel fraseggio, offrì a molti dei personaggi intrepretati sulle scene una dimensione psicologia di nobiltà, anche a personaggi vilain. Come se in ogni ruolo volesse mostrare quel già citato velo di dignità tragica, intrisa di malinconia, “quasi di coscienza di un destino fatale” (come ebbe a notare in un suo scritto Eva Pleus) che rendeva così singolari le sue interpretazioni. Non aveva bisogno di interpretare, era già il personaggio appena entrava in scena. E i pochi video rimasti delle sue interpretazioni, come Il trovatore della Rai del 1957 o La forza del destino al San Carlo di Napoli nel 1958, non fanno che attestarlo, confermando la modernità del suo gesto scenico.
In quello che è il continuo revisionismo critico nei confronti di una voce come la sua, legato all’evolversi del gusto e dello stile, la voce di Bastianini continua a colpire – nonostante le critiche feroci che hanno tentato di mettere in parallelo la sua voce con le trucibalderie veriste di alcuni baritoni del Novecento – per la malia e la ricchezza assolute del timbro, per il fraseggio scolpito e per la dizione chiara, quando non per la ricchezza delle sfumature. Ma soprattutto – ebbe a notare Guido Pannain – per quella voce che “risuona vera, reale, piena, calda, affettuosa. L’arco melodico si spiega morbido, infrangibile, come un elastico che non si spezza. Non una grinza in questo canto senza rughe, né fiati imprudenti o emissioni maldestre. Un colore inalterabile s’irradia avvolgente. Non ascolteremo più quella voce colta alla sua fonte, ma che lo stesso vive, nel suo modellarsi pieno e carnoso. E allora ci prende come una trepidazione per il nostro stesso sentire e capire. Perché ci sembra di averlo vicino, invisibile, forse nella stanza accanto. Gioia, rimpianto, angoscia placata da non sai quale misterioso senso di tenerezza. E l’amarezza per la perdita crudele sembra svanire per la presenza vivente del suo canto”.
Un presenza che ancora ci appare evidente in tutta la sua nobile fierezza, ma anche in quella nobiltà attraversata da un respiro di malinconia struggente con evoca ancora oggi, a cento anni dalla sua nascita, emozioni e brividi in chi continua ad amarlo e, giustamente, a celebrarne il mito.