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40 anni dalla morte di Mario Del Monaco, titano del canto

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Ricordare Mario Del Monaco a quarant’anni dalla sua scomparsa (morì il 16 ottobre 1982) significa, soprattutto, oltre all’omaggio che è doveroso rendere a un cantante di levatura storica, aprire la discussione su problematiche ancora irrisolte, dovute al suo metodo di canto (fu allievo e profondo sostenitore delle tesi di Arturo Melocchi) e alle scelte del repertorio sull’onda del modello lasciato da Enrico Caruso; modello, quest’ultimo, che si estese anche ad altre corde, secondo un esempio destinato ad allargare i propri orizzonti nel corso di buona parte del Novecento.
La lunga parabola artistica di Mario Del Monaco, che ha avuto il suo culmine a metà degli anni Cinquanta, ha infatti contribuito a declinare il mito del tenore con nuove sfumature drammatiche, mai più eguagliate.

Nato a Firenze il 27 luglio 1915, debuttò alla fine degli anni Trenta e cantò fino al 1976 imponendosi in un vasto repertorio, ma soprattutto divenne l’interprete di Otello di Verdi fino a oggi più importante della storia. Per comprendere la portata innovativa lasciata dalla sua carriera, bisogna partire dagli anni in cui, soprattutto in Italia, l’opera lirica godeva di popolarità, identificandosi nei suoi più grandi divi. In tal senso Del Monaco, che era fra questi, raccolse l’eredità di Enrico Caruso per poi portarla alle conseguenze più estreme. Lo fece perseguendo nel canto quella timbratura bronzea, quello squillo e quella virilità vocale e scenica che lo resero, complice la prestanza e l’arte attoriale perseguita con certosina profondità, il prototipo più completo di tenore drammatico inteso nell’accezione novecentesca del termine, con centri scuri, carichi di suono eppure sempre tenorili per lo slancio in acuto, con quella bruciante scolpitezza di accenti e granitica ampiezza declamatoria che mai più, dopo di lui, si sono riascoltate con tale saldezza di mezzi vocali e completezza di significati artistici.

In tal senso, si può affermare con certezza che il suo contributo alla corda tenorile costituisca l’ultimo esempio di tenore drammatico modernamente inteso, il cui valore si riflette ancora oggi in un modo di essere cantante d’opera che investe molteplici aspetti di tale arte, coinvolgendo appunto, oltre al patrimonio vocale divenuto mitico, anche la caratura dell’interprete e l’istrionismo attoriale da vero titano della scena, tanto che molti hanno riconosciuto in lui quelle qualità teatrali che facevano anche parte di grandi attori-mattatori del suo tempo, come Vittorio Gassman. Non a caso Del Monaco, oltre all’attività operistica, incarnò il mito del tenore anche toccando ambiti di attività che contribuirono al diffondersi della sua fama planetaria, avvicinando il cinema (esordì come attore nel film L’uomo dal guanto grigio del 1949) e il mondo della canzone, napoletana e non solo, sempre con una fisionomia protagonistica del tutto singolare, istrionica ed estroversa, intinta del proverbiale narcisismo tenorile che ne contraddistingueva i tratti caratteriali.

Ecco perché, volendo onorarne la figura e il retaggio della sua arte, non ci si può esimere dal ricordare il singolare modo di sviluppare l’essere cantante in senso estetico e attoriale: era bello, prestante e attento a cogliere l’intima verità dei personaggi con un dettagliato studio della maschera scenica. Le nostre considerazioni si articolano anche non dimenticando di evidenziare come la sua lunga carriera abbia determinato, come già avvenuto con Caruso, una serie di imitatori che hanno tentato, senza analoga fortuna, di ripercorrerne la strada anche se non accompagnati da pari patrimonio vocale e dalla medesima determinazione che spinsero Del Monaco a intraprendere una carriera improntata sul più certosino perfezionismo, sull’ossessiva insistenza verso le scelte di un repertorio, comprendente quasi cinquanta opere, che dopo inizi indirizzati all’ambito più lirico (si pensi all’Edgardo in Lucia di Lammermoor, al Pinkerton in Madama Butterfly, al Rodolfo nella Bohème, al Cavaradossi in Tosca, opera con cui esordì al Covent Garden di Londra nel 1946, e al Riccardo in Un ballo in maschera), lo spinsero verso gli orizzonti di un canto eminentemente drammatico, appunto secondo il modello carusiano, quindi con la ricerca di sonorità baritonali, senza però che esse sacrificassero mai lo squillo e quella dinamite che percorreva il suo canto rendendolo esplosivamente vibrante e vigoroso. Tutto questo con una consapevolezza nuova, quella di un canto novecentesco sempre più indirizzato sul versante stentoreo. Un innovatore quindi, non un tenore – come spesso e volentieri capita di leggere e sentire con sommaria superficialità di analisi – ascrivibile a una stagione verista sorpassata, da combattere e oscurare.

Dopo molta “gavetta” in provincia, in Italia divenne popolarissimo, accolto sui principali palcoscenici italiani, dal San Carlo di Napoli all’Opera di Roma (i teatri italiani dove cantò con maggiore frequenza), dall’Arena di Verona al Teatro Comunale di Firenze, quest’ultimo da lui amatissimo, dove prese parte alle leggendarie edizioni della Forza del destino (1953), La fanciulla del West (1954) ed Ernani (1957) dirette da Dimitri Mitropoulos. Alla Scala cantò dal 1949 al 1963, per 12 stagioni (di cui 8 consecutive, dal 1953 al 1961) affrontando 12 opere; in ordine di successione: Manon Lescaut, Andrea Chénier, Aida, La Wally, Otello, Norma, La fanciulla del West, Lohengrin, Carmen, Francesca da Rimini, I Troiani e Sansone e Dalila.

Il suo ricordo si fa via via più scomodo tanto più si considera quanto la sua arte abbia stabilito nel canto leggi che fecero di lui un tenore che, contro le regole dell’ortodossia vocale, si diede a una fonazione di forza che, apparentemente, avrebbe superato i confini della ragione condannandolo a una fine vocale prematura. Ma non fu così. Anzi, Del Monaco cominciò ad affrontare un repertorio tenorile “spacca voci” con tale vigoria da lasciare l’ascoltatore interdetto. Si pensi all’accento bruciante che prestò ad alcune parti verdiane in cui si distinse, come il ruolo del titolo in Ernani (l’impetuoso e mordente involo del suo “Oro, quant’oro ogni avido” resta ancora insuperato e diviene simbolo dell’eroe romantico virilizzato e spogliato di ogni languore, del bandito dall’accento appassionato e incisivo), Manrico nel Trovatore, Don Alvaro nella  Forza del destino e Radamès in Aida, per non tacere, allargando il raggio d’azione ad altri autori, del suo Sansone in Sansone e Dalila, di Don José in Carmen, di Canio nei Pagliacci (con questi due ultimi ruoli mandò il visibilio il Teatro Bolshoi di Mosca), del protagonista in Andrea Chénier e di Dick Johnson nella Fanciulla del West, per poi toccare isolati ma significativi traguardi wagneriani (si pensi a Lohengrin e Walkiria), divenuti da subito punto di riferimento da studiare per comprendere cosa dovesse essere un autentico Heldentenor, così come resta emblematico il suo approccio al ruolo di Enea nei Troiani di Berlioz affrontato alla Scala nel 1960, in cui si cimentò con la declamazione del canto francese senza forse restituirle la giusta dimensione stilistica ma garantendole quella rocciosa saldezza granitica che lo rese unico.

Anche dinanzi a Pollione, in Norma (storica l’edizione scaligera del 1955, con Maria Callas), non sposò correnti filologiche oggi in voga, che potessero dare al suo canto un barlume di cognizione del canto ottocentesco, ma forse, proprio per questo, donò al ruolo quella virilità e quella brunitura che, unite alla maestà del portamento scenico, rese il personaggio un punto di riferimento nuovo, anche pericoloso per i tenori che gli succedettero e dovettero faticare non poco per scrollarsi da dosso un modo di intendere una parte che negli anni Cinquanta, e per diversi anni a seguire, non si poteva pensare interpretata e cantata in modo diverso.

Venne poi, a partire dal 1950 in poi, Otello, la sua creazione interpretativa più idolatrata, ruolo affrontato sulle scene per ben 427 volte (con esso conquistò l’America, prima al Colon di Buenos Aires e poi a San Francisco e al Metropolitan di New York, teatro quest’ultimo, dove apparve in diversi ruoli dal 1950 al 1959), attraverso il quale Mario Del Monaco toccò il culmine di una ricerca e di una determinazione mirata a creare, con questo personaggio, la sintesi perfetta fra le varie tendenze attraverso le quali era stata concepita la vocalità di questa parte dagli interpreti che lo precedettero. Non è un caso che lo stesso Caruso preparò ma non riuscì ad avvicinare l’opera sulle scene, mentre Del Monaco trovò la via di mezzo giusta, e per certi versi rivoluzionaria, fra due correnti ben distinte: quella che da Francesco Tamagno e Giacomo Lauri Volpi, ossia del tenore squillante e acuto (il primo dei due, come è noto, ne fu il creatore), passava a Giovanni Martinelli e, soprattutto, in Mario Del Monaco, blandiva quella vocalità scura, con sonorità bronzee baritonali, che avevano già trovato in Ramón Vinay l’esempio di un modo di intendere il personaggio in maniera del tutto opposta. Un modo che Del Monaco raccolse, ma con estrema abilità sublimò, immettendo nel canto del baritenore quelle folgoranti accensioni declamatorie e quello squillo che resero, fin dall’ingresso del leggendario “Esultate!”, la sua visione del tutto innovativa. Una visione non aliena da ricercatezze che portarono talvolta il suo canto a sfumare i suoni, qualità oggi per lo più ingiustamente negatagli, eppure evidente nel duetto con Desdemona del primo atto, quando sul sol della parola “immensa” si ascolta un Del Monaco non certo alieno dal piegare le ragioni del suo canto stentoreo ed eroico verso ragioni espressive singolarmente terse in rapporto alle scelte di una voce dove, all’opposto, vinceva spesso la titanica saldezza della declamazione incandescente e la possente energia del fraseggio, come in “Ora e per sempre addio” o in “Sì, pel ciel marmoreo giuro!”. In questo contesto, oltre alla citata enfasi e al tentativo di scurire l’emissione verso risonanze baritonali, trionfò in Del Monaco quella indomita luminosità di uno smalto che, in acuto, vibrava con uno squillo e un metallo che rappresentano, lo scrisse Giuseppe Pugliese, “prodigi oggi sepolti”. Perché dopo di lui, per i tenori, affrontare Otello divenne un problema non da poco: quello di rapportarsi con un modello vocale che aveva creato qualcosa di assolutamente nuovo, fondendo la scuola antica con quella verista. E dopo molti anni solo Gregory Kunde, pur con mezzi vocali certo meno cospicui ma forte consapevolezza della sua scuola belcantista, è riuscito a ricondurre la parte verso orizzonti “antichi”. Gli altri, compreso oggi il raffinato e a suo modo modernissimo Jonas Kaufmann, che ha provato a scolpire il carattere del personaggio con un timbro sempre scuro ma con aperture a un canto sfumato più vicino a un modo di vedere in Otello il lato della debolezza umana più che l’eroismo del condottiero, hanno dovuto fare i conti con un modello tanto scomodo e, forse, irripetibile.

Lo stesso Lauri Volpi, amico-rivale di Del Monaco, su di lui scrisse nel libro Voci parallele: “Non somigliare a nessuno, né imitare nessuno, essere se stessi, dovrebb’essere l’aspirazione di ciascuno. Così ha fatto Mario Del Monaco, che non ha voluto imitare chicchessia e, dopo aver sofferto esperienze e indecisioni, si è fatta una voce, la sua voce, alquanto rigida e martellante, ma quella che lui ha voluto formarsi in accordo col suo temperamento e le sue aspirazioni. Nello spessore adamantino della sua voce è la ragione di confronto con la voce di Martinelli […]. Ostinandosi nel suo disegno, si propose d’inventare una voce per l’Otello, nonostante la figurina di paggio e il corpo di giovanile ed elegante complessione. Oggi ha raggiunto lo scopo con incredibile tenacia”.

Questa tenacia e questa idea della voce come sfida continua, nel confronto col proprio titanismo (ancora Giuseppe Pugliese, in un profilo personale di Del Monaco, ricorda la sua irrequietezza e imprevedibile volubilità, ma scrive anche che “rimase fedele, fino all’ultima recita della sua carriera, con religioso, monastico fervore, soltanto alla sua professione, alla sua arte, per le quali è stato capace di sacrificare ogni altro aspetto del suo carattere, della sua vita, ad esse contrario”), hanno finito per creare un qualcosa di inimitabile e mitico, che non solo ha avvolto la sua figura in un velo di leggenda, ma ha scatenato i più accaniti risentimenti di certi indirizzi vociologici a lui fortemente ostili, capitanati in ambito critico soprattutto da Rodolfo Celletti, il suo più accanito detrattore. Come lui, molti altri l’hanno accusato di quella monotonia timbrica e monolitica rigidezza interpretativa, di quel pressapochismo stilistico che oggi ancora permane nel credo di chi prosegue nei suoi confronti una campagna denigratoria pertinace, volta a scalfire il ricordo ancora vivo della sua grandezza oltre che l’indubbia importanza che ancora oggi ha il suo canto; un canto che, se ben analizzato, al di là degli eccessi e della singolarità del suo approccio vocale e interpretativo, resta moderno e insieme rivoluzionario nel modo con cui ha avvicinato certe parti. Otello ne è un esempio emblematico. Il negarlo significherebbe non ammettere quanto il suo personale contributo all’arte del canto lirico, per quanto isolato e ascritto alla sublime natura del suo credo vocale, meriti di essere studiato e valutato per l’importanza che ancora continua ad avere.

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