Chiudi

Vent’anni fa ci lasciava Peter Maag, il direttore teologo

Condivisioni

Un incontro con Peter Maag, di cui oggi ricorre il ventennale della scomparsa, poteva anche esulare dalla categoria delle normali conversazioni professionali. Avvicinandolo, si ricavava l’impressione di un uomo che guardava al mondo e alla carriera con distacco. Era un personaggio singolare. Per qualche aspetto, faceva pensare a certi protagonisti dei romanzi di Hermann Hesse, divisi fra l’ansia di spiritualità e la curiosità estetica e intellettuale per le cose del mondo. In lui sembrava vivere, in altre parole, l’antitesi fra l’artista (apostolo riconosciuto di Mozart) e il pensatore. C’è un episodio emblematico, nella sua biografia. Negli anni Sessanta, in un momento in cui gli impegni e le collaborazioni si stavano via via infittendo, si rifugia nel Tibet, in un monastero buddista, per dedicarsi alla meditazione. «Pubblicità, fretta, arrivismo – mi spiegò in una intervista – cominciavano a darmi fastidio. Fra me e la musica si era frapposto un Maestro Maag dimentico dello spirito e delle origini della musica. Così ho fatto in modo che il teologo si imponesse sul carrierista». Per lui la musica era un evento metafisico, una chiave di comprensione e approfondimento dello spirito: «Non è come la pittura, frutto invariabile di un colpo di genio. È qualcosa che muta e che per risvegliarsi ha bisogno ogni volta di un interprete. In questo vedo una componente teologica e una parentela con la reincarnazione».

Peter Maag era nato nel 1919 a San Gallo, in Svizzera. Si era formato musicalmente in famiglia: il padre era critico musicale, la madre violinista, la nonna allieva di Clara Schumann. Aveva all’attivo studi approfonditi di teologia e filosofia. Dopo aver intrapreso la carriera pianistica (si era perfezionato con Cortot), si rende conto a un certo punto che il pianoforte, come mezzo d’espressione, non gli basta più. Decisivo l’incontro con Furtwängler, che lo spinge a dedicarsi alla direzione d’orchestra. La scalata al successo inizia nel piccolo Teatro Comunale di Biel: da ripetitore ad accompagnatore di ballo, da maestro del coro a maestro sostituto e così via. Una scuola preziosa. Qui esordisce nel 1945 con Il flauto magico e, in concerto, con L’Orchestra della Suisse Romande nel 1949. Assistente di Ansermet, la sua carriera si svilupperà presto in molti paesi. È Kapellmeister all’Opera di Düsseldorf dal 1952 al 1954, quindi Generalmusikdirektor all’Opera di Bonn dal 1954 al 1959. Negli anni Sessanta realizza con la London Symphony Orchestra una serie di incisioni (Mozart e Mendelssohn). Dal 1964 al 1968 dirige la Volksoper di Vienna. È direttore artistico al Regio di Parma (1971-76) e consulente artistico a Torino (1974-76). Dopo la parentesi tibetana, rientrato in Svizzera, assume l’incarico di direttore dell’Orchestra sinfonica e del Teatro di Berna (1984-91).

Nel frattempo sposa una musicista veronese e inizia un rapporto privilegiato con le istituzioni musicali venete: diventa direttore principale dell’Orchestra da Camera di Padova e del Veneto e, nel 1989, vara la Bottega per cantanti lirici del Teatro Comunale di Treviso. Un’iniziativa concepita da Maag per fornire ai giovani talenti un punto di riferimento per il debutto e l’orientamento alla carriera. Nonostante i problemi finanziari impediscano di realizzare integralmente il progetto originario, il bilancio, in un decennio di attività, è più che positivo: oltre venti produzioni operistiche, fra cui la trilogia Mozart-Da Ponte e altri capolavori di Mozart, Rossini, Donizetti, Verdi, Bizet, Gounod. Dopo l’esperienza trevigiana, amareggiato dalla chiusura del Comunale, partecipa a un progetto analogo di respiro internazionale: l’Eurobottega. Ma ormai senza più troppa fiducia. Mi torna in mente il tono disilluso di alcune affermazioni nel corso del nostro ultimo incontro: «Sono pessimista. I politici sono più che mai lontani dalla cultura e dalla musica. La carta di identità di un paese dovrebbe essere la cultura, non il calcio. Ma ho il sospetto che in futuro ci sarà tanto calcio e sempre meno musica».

Il repertorio di Maag era vasto. Comprendeva il grande repertorio operistico e sinfonico, ma anche l’operetta, un genere frequentato fin dagli inizi e che, per sua stessa ammissione, gli aveva consentito di acquisire flessibilità, attenzione, presenza di spirito. L’influenza di Ansermet aveva fatto sì che il suo gusto e il suo repertorio rimanessero divisi fra la cultura francese e quella mitteleuropea. Verso quest’ultima lo spingevano a ogni modo le sue naturali inclinazioni. L’etichetta di specialista mozartiano non lo infastidiva, la considerava anzi un grande complimento: «Mozart è il più grande in assoluto – sosteneva – è un po’ come Shakespeare. In lui troviamo il matrimonio fra intelligenza e sentimento, coronato dal buon gusto e dalla sapienza teatrale». Per lui Mozart era soprattutto olimpica compostezza, fluido dinamismo permeato di nobile trasparenza anche nei momenti di maggiore tensione e drammaticità. Inutile cercarvi presagi romantici, ombre arcane, fremiti sensuali. Maag fondeva con armonia momenti solenni, tragici, scene a sfondo comico e abbandoni lirici, lasciando che i significati e i valori musicali emergessero spontaneamente, senza forzature.
Peter Maag – scomparso a Verona il 16 aprile 2001 – poteva essere discontinuo, specie negli ultimi anni, e personalmente ho il ricordo di concertazioni non sempre lucide, soprattutto in Verdi e Donizetti. Ma nel suo repertorio d’elezione (Mozart, Haydn, Beethoven, ma anche Schubert, Offenbach o i valzer viennesi) ha lasciato la testimonianza di una lezione interpretativa che, nei momenti migliori, sapeva accendere con estro e fantasia la limpida e classica misura della grande tradizione cui apparteneva.

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino