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Toti Dal Monte: il canto dell’usignolo fra virtuosismi e palpiti d’amore

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In occasione dell’istituzione del Premio alla carriera Toti Dal Monte, ideato dalla Associazione Lirica Trevigiana e assegnato quest’anno al soprano Marina Rebeka  (qui tutte le informazioni sull’evento), proponiamo un profilo del mitico soprano veneto a firma Roberto Mori.

Nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento agli anni ‘40 del Novecento si assiste, in campo operistico, a un trionfo dei soprani leggeri di coloratura. Una tipologia vocale da considerarsi come una deformazione paraverista del soprano lirico, sulla quale finisce per riversarsi la passione delle platee mondiali per il canto acrobatico. Tra le esponenti di questa categoria che negli anni ‘50 del Novecento verrà spazzata via dall’avvento di Maria Callas, Toti Dal Monte (Mogliano Veneto, 1893 – Pieve di Soligo, 1975) è la cantante che, nei decenni 1920-1930, esercita il maggiore ascendente sui pubblici latini. L’artista veneta nasce in realtà come soprano lirico, ma dopo alcune prove giovanili decide di dedicarsi al repertorio dominio assoluto dei soprani leggeri, quel repertorio in cui avrebbe primeggiato a livello internazionale e grazie al quale sarebbe divenuta “la Toti”.

Il mito della Toti si spiega in primo luogo con gli studi compiuti sotto la guida di Barbara Marchisio, uno degli ultimi grandi contralti del XIX secolo, dalla quale la giovane Antonietta Meneghel (questo il vero nome della Nostra) assimila i principi tecnici fondamentali teorizzati dalle scuole vocali ottocentesche. La tecnica della Marchisio era famosa per l’eleganza della vocalizzazione, la precisione dei trilli, delle scale cromatiche discendenti e delle agilità in genere. La vocalità di Toti Dal Monte, oltre che per il timbro immacolato, la luminosità dello smalto e l’estensione (fino al mi bemolle sopracuto negli anni migliori), ha tra i suoi punti di forza proprio il dominio tecnico con cui riesce a dar fondo al suo armamentario di “usignolo” della lirica: dalle note acute flautate, picchettate, alle volate e volatine semitonate, alle messe di voce; solo i trilli, appena accennati, non sono all’altezza della virtuosa.

Ancora più determinanti, nell’affermazione del mito della Toti, risultano l’ingenuità dell’accento, la dolcezza e la commovente fragilità che il timbro virgineo della cantante presta ai suoi personaggi d’elezione: Lucia di Lammermoor, Amina della Sonnambula, Gilda del Rigoletto, Maria della Figlia del reggimento. Rispetto ai soprani di coloratura della sua epoca (Luisa Tetrazzini, Maria Barrientos, Graciela Pareto, Maria Galvany, Elvira de Hidalgo, Mercedes Capsir), la Toti dà l’impressione di imprimere a questi ruoli un tocco nuovo e personale di poetica sensibilità, una matrice sentimentale ed elegiaca che si impone al di là degli artifici virtuosistici. Eugenio Gara parla di “una voce dal timbro verginale e intimamente sofferto”. Da questo punto di vista, si può dire che con la Toti inizia la prima, seppur parziale, riforma moderna nel repertorio del soprano di coloratura. Non a caso Arturo Toscanini, per la storica edizione del Rigoletto scaligero del 1922, preferisce il giovane e ancora sconosciuto soprano veneto alla più celebre Tetrazzini, capostipite di quella schiera di soprani leggeri, o lirico-leggeri, che imperavano nei primi decenni del Novecento, affrontando anche il repertorio italiano primo Ottocento originariamente appannaggio dei soprani drammatici di agilità.

Il repertorio operistico della Toti comprende venti autori e una trentina di opere, e spazia dalla Euridice di Jacopo Peri a Le Rossignol di Stravinskij. L’arco cronologico della sua scarna discografia va dal 1924 al 1941 e restituisce solo in parte la sua reale presenza artistica. Oggi, com’è logico che sia, quelle interpretazioni mitizzate da pubblici che idolatravano la Toti producono all’ascolto un effetto diverso. Le incisioni di arie sparse realizzate nel corso della carriera lasciano trapelare, tra i pregi straordinari, anche manierismi e leziosaggini. Per rispettare il feticcio della fanciulla angelicata, e quindi il modello del soprano leggero dai suoni flautati, la Toti punta infatti a un complessivo alleggerimento delle emissioni. Questa tendenza, come i dischi documentano inequivocabilmente, si accentua nel registro centrale, dove i suoni risultano spesso aperti e sbiancati. Alla luce delle registrazioni rimaste, pertanto, Toti Dal Monte resta un esempio emblematico dell’antica scuola vocale italiana, capace di introdurre anche una qualche innovazione, ma il cui stile risente a tratti di un gusto inevitabilmente datato.

Tra le interpretazioni più celebrate consegnate al disco figurano due pagine dal Rigoletto: il celeberrimo “Caro nome”, registrato nel 1924 dopo i trionfi scaligeri con Toscanini (ascolto), e il duetto finale “Lassù nel cielo” inciso nel 1933. Il primo brano fotografa la vocalità del soprano al suo meglio: si ascolta una voce dal suono purissimo e dallo smalto lucente, omogenea in tutta la gamma, capace di attacchi di una nettezza stupefacente. Gli acuti sono raggiunti senza incertezze, i sopracuti hanno una bella proiezione e si intuisce una ampiezza di suono davvero singolare per un soprano leggero. Inutile dire che la Gilda della Toti è l’emblema del candore e della castità: l’espressione è misurata e composta, anche nell’incisione del duetto finale dell’opera che, tra sparsi suoni schiariti, si risolve in un trionfo della “morte angelicata”.

Quanto alla sua mitizzata Lucia, si può averne un’idea precisa grazie alle due arie incise nel 1926 e che ritraggono, anche in questo caso, il soprano all’apice della forma. La scena della pazzia è la pagina in cui la voce liliale della cantante trova, pur tra le immancabili affettazioni, gli accenti più ispirati e toccanti. Inutile cercare risvolti introspettivi. L’interprete esprime il delirio di una donna-bambina per la quale la pazzia rappresenta l’evasione forzata da una realtà ormai insostenibile (ascolto). Allo stesso modo, Amina, come documentato dalla bella versione di “Ah! Non credea mirarti” del 1929 con la direzione di Carlo Sabajno, è ritratta all’insegna della pateticità e della fragilità (ascolto). Queste creature melodrammatiche vengono colte nella loro aspirazione immatura – e perciò vulnerabile – a innalzare l’amore in una sfera ideale. Le note passionali, la delusione, il dolore, la follia, l’idea della morte non si risolvono mai in accenti drammatici e tragici (quelli che saranno svelati in seguito dalla Callas), ma sono sempre stemperati nella purezza di un canto virgineo, sospeso in una dimensione libera da implicazioni psicologiche. Nel canto della Toti si esprime compiutamente il concetto secondo cui l’effusione amorosa e i travagli dell’eroina angelicata devono trovare sfogo in un canto astratto. Gli affanni e le sofferenze risuonano nel suo timbro come un sogno lontano per quanto ben percepibile nelle sue diafane trasparenze. Ci sono anche altre incisioni in cui è possibile ritrovare al meglio i malinconici abbandoni e la smaltatura scintillante di questa voce idealizzata di fanciulla: le arie da La figlia del reggimento incise nel 1926 e 1928 (direttore Gabriele Santini), la cavatina “O luce di quest’anima” da Linda di Chamounix (1929, direttore Sabajno), o ancora le pagine da I pescatori di perle e del Carnevale di Venezia. In questi brani si ascoltano purezza di intonazione, canto legato e levigato, agilità nitide. Anche l’interprete, nonostante qualche sparsa leziosaggine, risulta incantevole.

Meno significativi, alla luce del gusto odierno, gli approcci a Rossini (Il barbiere di Siviglia, 1933, Guglielmo Tell, 1924), mentre risulta potenzialmente più interessante quello a Mozart (“Deh! Vieni, non tardar”, 1924), autore nel quale la Toti avrebbe potuto brillare, eppure mai affrontato dal vivo, anche perché all’epoca nei nostri teatri non veniva quasi mai eseguito. C’è poi una incisione di “Casta diva” dalla Norma (1933, direttore Ghione) che ascoltata oggi, dopo la riforma callasiana e l’avvento di altre grandi belcantiste, risulta un esempio datato di manierismo vocale ed espressivo. Il punto è che Toti Dal Monte finiva per attrarre nell’orbita di un canto delicato e flebile anche parti dove la scrittura vocale e il carattere dei personaggi avrebbero richiesto sensibilità e affondi drammatici di ben altra portata. È il caso di Madama Butterfly, l’unica opera consegnata integralmente al disco, al fianco di Beniamino Gigli e Mario Basiola, e sotto la direzione di Oliviero de Fabritiis. Denigrata da gran parte della critica, l’incisione risale al 1939, periodo in cui la cantante quarantaseienne era già entrata nella parabola declinante. Aveva perduto i sopracuti (qui omette per esempio il re bemolle dell’aria di entrata) e cominciava a ripiegare sui ruoli di soprano lirico: quasi un ritorno alle origini, senza però rinunciare ai suoni sbiancati e ai “bamboleggiamenti”. Il risultato è una Butterfly manierata e fanciullesca, persino infantile, in linea con i cliché convenzionali del personaggio all’epoca imperanti. Soprattutto nel primo atto, la Toti schiarisce in maniera del tutto anomala le emissioni, eppure in sé il timbro è ancora bellissimo e nei momenti in cui canta con la sua vera voce, senza inflessioni artefatte, sentiamo una Cio-Cio-San pur sempre esile, fragile, ma senz’altro credibile e convincente, peraltro estranea ad accenti volgarmente esteriorizzati e a sbracature di gusto verista. La scena finale dell’opera, per esempio, è resa con intensa e, allo stesso tempo, misurata drammaticità (ascolto).
Va da sé che Toti Dal Monte non era nata per restituire il realismo borghese del teatro pucciniano e verista, ma per incarnare le magie di un mondo incantato e sognante, fuori dalla realtà quotidiana. Per evocare patetiche atmosfere canore di passero solitario, abitatore di un “cielo di favola” e “invidiato – come scrisse Gabriele D’Annunzio – da tutti gli usignoli più sapienti”.

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