La follia moderna, così come la concepisce la psichiatria occidentale, nasce nel Seicento. È un portato – per certi aspetti un’invenzione – del razionalismo e della stessa cultura scientifica. Nell’antichità e nel Medioevo, la demenza era considerata una manifestazione soprannaturale, originata da demoni interni, spiriti maligni o furie di dèi. I poemi omerici e le tragedie greche sono pieni di riferimenti a stati mentali alterati da eventi al di fuori del controllo umano. L’epilessia, per esempio, viene considerata un “male sacro” fino a quando Ippocrate non dimostrerà la mancanza di ogni legame con la sfera del divino, riconducendola a un insieme di cause naturali (ignote) e quindi assimilandola alle altre malattie. Ma solo dopo l’avvento di Galileo, Cartesio e Newton, che impongono il loro concetto di razionalità – fino ad affermare che perfino l’esistenza di Dio può essere dimostrata con argomenti scientifici e filosofici – si arriverà a considerare la pazzia come un pericolo per la normalità, da segregare come patologia, insieme con tutti i residui delle superstizioni medioevali e rinascimentali.
La storia della follia, quindi, è soprattutto una storia di razionalizzazione delle cause che stanno alla base del disturbo mentale e delle pratiche mediche in grado di arginarlo o guarirlo. Non si può dimenticare, infatti, l’impatto che la pazzia ha avuto a livello sociale, rendendo il matto una figura altamente simbolica. La stessa caccia alle streghe è stata in fondo una tragica forma di trattamento psichiatrico, andando a colpire la devianza come più avanti faranno, ovviamente in forma meno violenta, i manicomi. Eppure la società non sempre ha assegnato alla follia una valenza negativa. Si pensi al matto come indovino, capace di vedere cose che altri ignorano (o magari, in quanto deviante, capace di dire ciò che gli altri non osano). O, ancora, all’associazione di genio e pazzia, derivata dalla tradizione romantica, secondo la quale l’artista e il folle sono esseri liberi per eccellenza.
Quanto al teatro musicale, si sa che la sua storia è letteralmente disseminata di follie. A partire dalla Finta pazza composta da Francesco Sacrati su libretto di Giulio Strozzi (Venezia, 1641), che introduce nel melodramma un topos della commedia dell’arte, sarà tutto un germogliare di tiranni deliranti, di regine impazzite, di frenesie d’amore (finte o vere che siano). Il tema sarà a lungo associato al registro comico e, di conseguenza, a una presa di distanza se non a un atteggiamento di biasimo nei confronti degli alienati. Solo nella seconda metà del Settecento – col diffondersi in tutta Europa del culto della sensibilité – nasce un nuovo modo di rappresentare la demenza, che si pone sotto il segno del gusto larmoyant prima e di quello romantico poi, con una serie di pazzie commoventi e patetiche.
Se il tema della follia sentimentale si affaccia per la prima volta nel romanzo inglese (Sir Charles Grandison di Samuel Richardson e Vita e opinioni di Tristram Shandy di Laurence Sterne), in campo operistico a segnare una svolta fondamentale è invece un’opéra-comique di Marsollier des Vivetières musicata da Nicolas-Marie Dalayrac: Nina ou la folle par amour (1786). Da una pazzia di impronta per lo più parodistica si passa a una pazzia prevalentemente malinconica e, dunque, dalla non identificazione dell’effetto comico alla immedesimazione dell’effetto patetico. Si inizia così a guardare alla follia in modo tendenzialmente positivo, quasi con simpatia. Anche la pittura rinuncia alle deformazioni grottesche che nei secoli precedenti avevano contrassegnato i ritratti dei malati di mente, per penetrare, attraverso una più realistica descrizione, un aspetto penoso della natura umana. Pensiamo al modo in cui Théodore Gericault, nel ciclo dei Pazzi, restituisce dignità al dolore e alla sofferenza attraverso la profondità espressiva degli occhi, la contrazione dei muscoli del volto e i rapporti cromatici. Il binomio normalità-pazzia non rimanda più a una differenza di tipo ontologico, e con il folle si può perfino tentare di comunicare. Non a caso, proprio verso la fine del Settecento nasce la psichiatria moderna.
Anche nell’opera italiana il tema dell’amore come causa di follia subisce la metamorfosi lacrimosa. La Nina francese viene musicata pure da Giovanni Paisiello che la porta in scena nel 1789 con il titolo Nina, o sia La pazza per amore. Quella della folle non è più una voce da realizzare in chiave caricaturale, ma diventa in un certo senso la voce del cuore più autentica, capace di svelare verità intime e profonde. Una voce che ha perduto ogni connotazione negativa e diventa quasi un modello di espressione sincera e appassionata. Le Nine di Dalayrac e Paisiello, pertanto, sono il più importante punto di fissazione di un topos, quello della pazzia per amore, che eserciterà la sua forza di attrazione per tutta la metà dell’Ottocento, quando i soggetti verranno attinti dal teatro e da autori della narrativa europea di ispirazione romantica come Walter Scott, Friedrich Schiller, George G. Byron, Victor Hugo.
Uno dei tratti peculiari del Romanticismo è la rivalutazione del lato passionale e istintivo. Questa tendenza porta a prediligere le atmosfere buie e tenebrose, le sensazioni forti, l’orrido e il pauroso. Naturalmente nell’opera italiana l’interesse per la dimensione fantastica e misteriosa, proprio ad esempio della cultura tedesca, subisce un adattamento. Al centro del dramma si stagliano soprattutto le passioni che dominano i personaggi, spesso mostrati in stato di alterazione psichica o, come appunto nelle scene di pazzia, di perdita di coscienza. E se la voce della follia sentimentale era caratterizzata da forme strofiche regolari, tessiture contenute, stile semplice e parco di ornamentazioni, nella follia romantica la voce della pazzia sarà invece ipervirtuosistica. Non va dimenticato che fra gli anni Trenta e Quaranta il virtuosismo trascendentale di matrice strumentale celebra con Paganini e Liszt la sua apoteosi. Fino ai primi dell’Ottocento erano stati i virtuosi del canto a stimolare l’imitazione degli strumentisti, ora si assiste a una inversione di tendenza: sono le conquiste dei virtuosi di strumento a fornire modelli alla vocalità.
In questo quadro, Lucia di Lammermoor porta in scena non solo la pazzia romantica per antonomasia, ma la più compiuta pittura musicale della follia, destinata a diventare archetipo espressivo e modello drammatico di riferimento. Gaetano Donizetti – che per un curioso caso del destino morirà paralizzato e demente dopo essere stato colpito da una malattia nervosa di origine sifilitica – aveva già descritto la pazzia in diverse opere: da quella di Emilia di Liverpool (1824) ai deliri di Murena nell’Esule di Roma (1828), di Torquato Tasso nell’opera omonima e del Furioso all’isola di Santo Domingo (1833), per arrivare a quelli di Linda di Chamounix (1842).
Raccolta intorno al personaggio della protagonista, sullo sfondo dei nebbiosi paesaggi e dei tetri manieri della Scozia, Lucia di Lammermoor esprime come nessun’altra opera l’essenza dell’opera italiana degli anni Trenta, manifestando l’aspirazione del melodramma a specchiarsi nelle cupe inquietudini del primo Romanticismo, e dunque nella dimensione del perturbante e nella contemplazione della morte. Il soggetto è tratto da un romanzo “gotico” di Walter Scott, The Bride of Lammermoor (1819), che aveva ben presto conquistato l’immaginario teatrale dell’epoca e al quale si erano ispirati altri compositori prima di Donizetti: Michele Enrico Carafa (Le nozze di Lammermoor, Parigi 1829), Luigi Riesk (La fidanzata di Lammermoor, Trieste 1831), Ivar Frederik Bredal (La sposa di Lammermoor, Copenhagen 1832) e Alberto Mazzucato (La fidanzata di Lammermoor, Padova 1834).
Scott, che nell’introduzione al romanzo precisa di essersi basato su un fatto realmente accaduto nel 1689, colloca la vicenda nella cornice degli accesi conflitti religiosi fra gli Ashton protestanti, protetti da Guglielmo d’Orange, e i Ravenswood cattolici. Ma di tutto questo nel libretto di Salvatore Cammarano, che retrodata gli avvenimenti di un secolo, non resta che la controversia matrimoniale, con protagonisti due giovani amanti appartenenti alle due famiglie avverse (ennesima variante del Romeo e Giulietta shakespeariano). Caratteristiche del romanzo, poi, sono l’accuratezza della ricostruzione ambientale e l’abbondanza dei particolari – non esente da una certa prolissità – destinate a colpire la fantasia di lettori inclini al gusto del pittoresco. La versione di Cammarano, al contrario, asseconda il culto di Donizetti per l’essenzialità e la concisione: lo sfondo politico-religioso viene ridotto e quasi del tutto eliminato a vantaggio della rapidità dell’azione. Il libretto semplifica infatti le complicazioni presenti nella trama del romanzo, che acquista, anche a scapito della fedeltà all’originale, un taglio più dinamico. Qualche figura scompare, come la madre di Lucia, e alcune situazioni si risolvono in chiave più interiorizzata: Edgardo, per esempio, non muore inghiottito dalle sabbie mobili, ma sceglie il suicidio schiacciato dalla morsa degli eventi. I personaggi escono così scolpiti a tutto tondo, ben stagliati nella loro individuazione psicologica.
Vero è che l’opera donizettiana privilegia i momenti del racconto e della memoria. Si consuma soprattutto in atti contemplativi che vanno dal duetto d’amore del primo atto alla scena della follia di Lucia, al suicidio di Edgardo. Tre scene madri, tre microcosmi dell’anima romantica. Particolare importanza assumono gli antefatti, che determinano le atmosfere dell’opera e ne condizionano l’inevitabile epilogo tragico. In questo contesto i personaggi sono quasi spettatori più che artefici degli eventi e la loro unica via d’uscita è rappresentata dalla fuga nel lirismo e nell’elegia. L’aura romantica dell’opera deriva anche dalla presenza della natura che fa da cornice alla vicenda. La prima apparizione di Lucia avviene in un parco pieno di presagi (la fontana macchiata di sangue e la visione del fantasma), dove la natura stessa sembra essere premonitrice di sventura. Si pensi anche al temporale della scena della torre (soggetta a tagli di tradizione, ma ripristinata nelle recenti edizioni integrali), che funge quasi da commento al furore di Edgardo, o alla scena notturna finale con la lugubre visione delle tombe dei Ravenswood.
La vicenda è iscritta in effetti in una fatalità arcaica e primordiale, evocata da Scott tra il ricorrere di presentimenti e le presenze di oscuri ministri. Da questo humus culturale lo scenario dell’opera è preordinato e riflette la parabola pessimistica della vicenda e il gusto di un’epoca. Naturalmente Donizetti non punta alla ricostruzione storica, né al dato di colore: ambientazione e paesaggio fungono piuttosto da terreno propizio allo scatenarsi di passioni sconvolgenti, ricondotte però entro i limiti di un lirismo idealizzante. Il che induce il compositore a spostare il baricentro formale più ancora verso il canto, inteso come veicolo espressivo privilegiato e diretto di quelle passioni.
Il fuoco della passione di Lucia, protagonista assoluta, viene trasformato musicalmente in una scrittura vocale fiorita, che raggiunge le zone più acute della tessitura. Donizetti innesta una linea di stilizzazione belcantistica di impronta trascendentale in una situazione di disperata drammaticità. L’ispirazione febbrile e violenta investe tutto l’armamentario del vocalismo d’agilità: gorgheggi, messe di voce, volate e volatine, trilli, note ribattute e picchettati hanno una potenza trasfigurante senza precedenti. Gli abbellimenti non sono fine a se stessi, diventano strumento patetico ed espressivo, indispensabile per caratterizzare le intermittenze del cuore e la fragilità mentale della protagonista. Lucia, in fondo, è già folle al suo apparire. È una visionaria che rifiuta la realtà e vive in un altro mondo, trasformando avvenimenti e persone. La grande scena della pazzia, culmine del primo melodramma romantico italiano, segna il momento della catarsi, della liberazione finale. Lucia ripercorre tutte le tappe della sua infelice storia d’amore: dall’apparizione del fantasma allo scambio degli anelli, fino alla morte di Arturo, da lei ucciso. Ricompone nel delirio il proprio mondo immaginario come fosse presente.
Dal punto di vista strutturale, si tratta di un numero chiuso molto elaborato. Teoricamente, è un’aria che segue uno schema usuale e si articola in un recitativo accompagnato dall’orchestra (“Il dolce suono mi colpì di sua voce!”), nell’aria vera e propria (il Larghetto “Ardon gl’incensi”), in una scena di raccordo e in una cabaletta conclusiva (il Moderato “Spargi d’amaro pianto”). In realtà, all’interno ogni rapporto è alterato e non è possibile individuare una linea ferma: è un susseguirsi di brevi melodie, di continui incisi, che tentano di tradurre il più possibile i sentimenti che il testo suggerisce. La dissociazione mentale di Lucia – fatta di ritorni, recuperi e improvvisi scarti logici e narrativi – è restituita con una condotta musicale dal procedere frammentato, continuamente spezzata. Il tessuto melodico è dilaniato, procede per strappi, così come si addice alla circostanza, che è eccezionale perché l’eroina ha perso il senno. Si tratta, come accennato, di un delirio riassuntivo rispetto al piano complessivo dell’opera, in cui si risentono i grandi temi portanti del duetto d’amore e di quello delle nozze, cui corrispondono altrettante sezioni del pezzo. Tutti elementi che la musica puntualmente realizza grazie ai richiami motivici alle scene precedenti, accostati ad altri nuovi, come la magnifica trenodia che accompagna l’entrata della protagonista. La pazzia è ebbrezza e autocompiacimento, gioco speculare ottenuto grazie all’accorta distribuzione degli effetti strumentali, alla messa a punto di una tavolozza timbrica inedita.
Composta in meno di due mesi, tra la fine di maggio e gli inizi di luglio del 1835, Lucia di Lammermoor trionfa al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835 grazie anche a un cast vocale d’eccezione nelle prime tre parti: Fanny Tacchinardi-Persiani (Lucia), Gilbert Duprez (Edgardo) e Domenico Cosselli (Enrico). La fama dell’opera si diffonde presto in tutta Europa e se ne trova conferma in alcune citazioni letterarie. In Madame Bovary di Gustave Flaubert (1857) la protagonista si accende di desiderio amoroso assistendo a una recita dell’opera al teatro di Rouen. Ma pure Anna Karenina, nel romanzo di Tolstoj “per un attimo” è attratta dalla “tragica morte dell’eroina donizettiana”. Di fatto, Lucia sarà uno dei pochi titoli del compositore bergamasco destinati a non conoscere fasi di oblio e a rimanere stabilmente in repertorio, toccando la sensibilità del pubblico di ogni epoca.
Il segreto del successo – oltre che nell’invenzione melodica travolgente – sta nel fatto che lo scenario dell’opera, plasmato sulla linea di una tragicità che conduce alla pazzia e al suicidio, è attraversato dalle figure letterarie e dai miti culturali di cui è intrisa l’anima del Romanticismo. Lucia di Lammermoor incarna il principio, tipicamente romantico, secondo cui il vero amore non teme di lottare contro grandi ostacoli ed è comunque destinato a trionfare, anche dopo la morte. L’amore di Lucia ed Edgardo è isolato in un’atmosfera torbida e incombente dalla quale non può generarsi che follia e morte. E tuttavia quell’amore è in grado di sublimarsi. È la musica a garantire la sublimazione e la purificazione degli animi. Lucia si macchia di una colpa che la pazzia può assolvere, ma che solo la musica può del tutto redimere. Follia e suicidio, allora, non sono più impurità dell’umano, ma veicoli per raggiungere un’altra dimensione, quella in cui Lucia ed Edgardo sognano di realizzare l’eternità del loro giuramento d’amore. È la trasfigurazione dell’esistenza raggiunta attraverso la romanticizzazione della vita, un’apoteosi che riveste follia e morte di caratteri etici ed estetici. È il sogno del melodramma che finalmente si compie.