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Le dolcissime effigi: i manifesti operistici di Leopoldo Metlicovitz

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Tra i padri dell’arte cartellonistica italiana e dei manifesti d’autore, la cui età aurea si colloca nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, possiamo sicuramente annoverare il triestino Leopoldo Metlicovitz (1868-1944), proveniente da una famiglia di origine dalmata. Sin dagli esordi si forma come tecnico raffinato presso la ditta paterna di minuteria meccanica, iniziando fin dagli anni giovanili a occuparsi di litografia e di grafica d’arte, nel 1882 come apprendista presso una tipografia di Udine e, dal 1888, a Milano, nella ditta Tensi, specializzata nella produzione di carte e lastre per la fotografia e, successivamente, nelle rinomate Officine Grafiche Ricordi. Qui collabora con l’illustratore, scenografo e pubblicitario tedesco Adolf Hohenstein (1854-1928), autore di locandine, bozzetti, figurini e tavole di attrezzeria per opere liriche andate in scena, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, specialmente al Teatro alla Scala, al Regio di Torino e al Costanzi di Roma, da La Wally a Germania di Franchetti, da Falstaff a La bohème e a Tosca. A Milano Metlicovitz, dando sfogo a un fervido estro creativo, può dimostrare tutto il proprio talento, firmando via via copertine, cartoline, calendari e manifesti pubblicitari di gran pregio, di iconica bellezza e di vigoroso impatto estetico.

Non è questa la sede più opportuna per disquisirne capillarmente (al riguardo, si rimanda ai puntuali scritti di Giovanna Ginex e all’agile pubblicazione del 2018 di Vittoria Crespi Morbio Leopoldo Metlicovitz alla Scala). Vogliamo però ricordare alcuni dei suoi lavori più curiosi: la pubblicità del profumo Fleurs de Mousse, dal marcato linguaggio floreale di chiara ascendenza Liberty (1898); il poderoso ed eroico michelangiolismo esibito nel cartellone Liebig vero estratto di carne (1899) o, pochi anni più tardi, in quello per le assicurazioni Concordia, trionfo della virilità gagliarda e dai nervi tesi; il paesaggismo terso e realistico delle affiches degli anni Venti inerenti località turistiche quali Stresa, il lago di Como, Zara, Pola, le Dolomiti; il bidimensionalismo piano e sintetico della réclame delle Marmellate Fede (1927), dove uno scanzonato Pinocchio in abito rosso-aranciato e un goloso cagnolino emergono prepotentemente dal fondo nero.

All’interno di un’attività così ampia e sfaccettata, un ruolo importante lo ricoprono i manifesti operistici; nell’ultimo decennio del XIX secolo infatti, grazie all’amicizia e alla collaborazione con l’editore Giulio Ricordi, Leopoldo Metlicovitz instaura numerosi contatti con il vivace ambiente teatrale meneghino. A partire da quel momento, l’artista triestino darà vita, per alcuni spettacoli, a esuberanti affiches di sicuro effetto visivo, ancora oggi tra le più belle mai create, entrate di diritto tra i capolavori del cartellonismo. Pensiamo, per esempio, alla variopinta ed elegante temperie Art Nouveau venata di simbolismo e di atmosfere oniriche, caratterizzante le illustrazioni di composizioni di Giacomo Puccini (Madama Butterfly, “immersa nelle calde tonalità dei rosa primaverili, illanguidisce nell’attesa di uno sposo che da tempo la tradisce”, per citare la Crespi Morbio, e l’altera Turandot dagli occhi impenetrabili e acquosi, incastonati come gemme preziose in un fiero viso eburneo), Oscar Straus (Sogno d’un valzer del 1909, traduzione italiana dell’operetta Ein Walzertraum), Alberto Iginio Randegger (Il ragno azzurro, dalla fluida linearità liberty), Yvan de Hartulary-Darclée (Amore in maschera del 1913). Oppure, al pronunciato e plastico realismo, di sapore a tratti verista, riscontrabile nelle cromolitografie del Trittico pucciniano, della malinconica Manon Lescaut, o di rarità musicali quali Hans, il suonatore di flauto di Luigi Ganne, Giove a Pompei di Umberto Giordano e Alberto Franchetti del 1921 (immagine dall’accentuato linguaggio sapido), Quo vadis…? di Jean-Charles Nouguès, Giovanni Gallurese di Italo Montemezzi (1905). Oppure ancora, alle stampe di ricercato gusto Jugendstil, con affascinanti inserti floreali, per lavori di Riccardo Zandonai quali Giulietta e Romeo, effigiati in un casto abbraccio, Melenis del 1912 e Conchita; Iris del 1898 (dal “volto della protagonista […] ripiegato nell’ombra, segnato da un peso funereo”, come scrive la Crespi Morbio) e Amica di Pietro Mascagni; La colonia libera di Pietro Floridia, dominata dal ritegno altezzoso della selvaggia Rosaria; Anton di Cesare Galeotti (“gli occhi socchiusi della casta Meryem, pronta a immolarsi tra le fluorescenze argentee dei gigli”, sempre Crespi Morbio); Lorenza di Edoardo Mascheroni (1901), dove la fiera e volitiva fanciulla si erge tra i cardi.

Menzioniamo, infine, la dolente intimità umana e la spontaneità di manifesti come quello della commedia musicale del 1908 di Zandonai Il grillo del focolare, improntato a un soffuso languore domestico dato dagli avvolgenti bagliori del caminetto. Raffigurazioni, quelle delle affiches di Metlicovitz per opere, operette e féeries (tra queste ultime, rammentiamo La polvere di Pirlimpinpin del 1908 su musica di Costantino Lombardo), contraddistinte da un pittoricismo netto e analitico, di dirompente potenza espressiva e di innegabile brio, e da un utilizzo sapiente delle cromie, che virano da gamme modulate ad altre di violenza quasi espressionista. Litografie colorate di deciso impatto visivo nelle quali si ravvisano, di volta in volta, molteplici influenze: dal realismo di matrice sociale all’estetismo del Sezessionstil; da iconografie simboliste a un eclettismo classicheggiante; da uno stile sintetico a uno maggiormente elaborato; dal classicismo eroico di derivazione accademica a suadenti suggestioni di origine orientale.

Sempre in ambito teatrale, vogliamo almeno ricordare velocemente gli acquerelli che Metlicovitz realizza per alcune serie di cartoline con scene tratte da opere liriche (Tosca, Madama Butterfly, Germania); le copertine di spartiti e di trascrizioni per pianoforte; i manifesti per le celebrazioni del centenario verdiano del 1913, nei quali il Cigno di Busseto si staglia con pathos nel cielo dorato della propria città natale; gli studi ad acquerello per l’Almanacco verdiano e per l’Almanacco verdiano tascabile del 1902, con episodi dai più amati melodrammi (La traviata, Il trovatore, Rigoletto, La forza del destino, Aida, Otello) di Giuseppe Verdi, che il triestino conosce nell’autunno del 1900 nella villa di Sant’Agata; l’affiche di sapore pulp per il film muto di Francesco Bertolini Pagliacci (1915), ispirato all’omonimo dramma musicale di Ruggero Leoncavallo, dominata dall’inquietante e corrucciata figura bianca di Canio che risalta su di una parete grondante sangue.
“Ultimo dei romantici”, come è stato definito da Vittoria Crespi Morbio, Leopoldo Metlicovitz ci ha regalato immagini di inusitata, vigorosa matericità, nelle quali i personaggi sono saldamente ancorati al suolo, in un’eterna e tesa lotta chiaroscurale tra luci e ombre; immagini di sbalorditiva sensibilità comunicativa, pervase di una partecipazione sentita e commossa.

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