Chiudi

Il Macbeth verdiano, un’opera sperimentale fra delitto, terrore e pietà

Condivisioni

Il Macbeth di Giuseppe Verdi, che questa sera inaugura la Stagione 2021/22 della Scala, è stato riconsegnato alla regolarità della rappresentazione scenica da alcuni decenni. Terminata la stagione della “riscoperta”, l’opera è ormai entrata stabilmente in repertorio. È anzi uno dei titoli più ricorrenti nei teatri internazionali, anche al di là delle ragioni esterne e celebrative.

Con Macbeth il giovane Verdi trova le ali per spiccare un volo fino ad allora solo intuito. All’epoca della composizione (1846/47), è un genio che ancora sperimenta, cerca l’originalità e trova il coraggio di spingere la forma musicale verso frontiere sconosciute, con uno sguardo culturale che, a differenza degli intellettuali suoi contemporanei, va al di là degli orizzonti italiani. Ad attrarlo, più che l’elemento fantastico presente nella tragedia di Shakespeare, sono le grandi passioni umane: nel caso specifico la lotta – nell’animo inizialmente nobile del protagonista – tra un’ambizione smisurata e una coscienza morale via via sempre più debole. Macbeth sceglie liberamente il male non per una causa al di fuori di lui, ma perché non riesce a controllare e a guidare le forze negative che ha dentro si sé. Gli elementi soprannaturali non sono altro che proiezioni di rimorsi e timori. Le streghe danno corpo e voce ad ambizioni e pulsioni distruttive, materializzano le forze oscure che governano l’agire del protagonista. Lady Macbeth, invece, è l’oggettivazione cosciente della sua volontà: una volontà tanto forte da acquisire l’autonomia di un vero e proprio personaggio capace di porsi in posizione di antagonista.

Composta su libretto di Francesco Maria Piave, in un periodo in cui Verdi nutriva ancora la speranza di un riscatto popolare e risorgimentale, la partitura rilegge la spietata e desolata tragedia di Shakespeare in un’ottica di dolore e di pietà. Alcune pagine riportano al gusto di Attila e de I masnadieri, al carattere patriottico (specie nel finale) del Nabucco e dei Lombardi. È però nel tratteggio dei due protagonisti, delle loro più intime pieghe caratteriali, che questo lavoro riesce a gettare nuovi germi tra le forme del melodramma ottocentesco. Verdi essenzializza questa tragedia dell’ambizione e del potere, facendo vibrare la forza elementare di un linguaggio musicale turbinoso, denso, dall’impatto aspro e scabro. Un’acquisizione stilistica consapevole, confermata del resto nel rifacimento parigino del 1865. Qui il compositore apporterà ritocchi testuali e musicali, sintonizzati con le esigenze spettacolari del Théâtre Lyrique, senza tuttavia sconfessare l’iniziale idea ispiratrice. Che ha come tratti salienti il terrore e la brevità: la “terribile celerità” di cui parla Schlegel.

Tenendo fede a questi due principi, Verdi concepisce, fin dal 1847, un dramma scenico-musicale dal taglio psicologico. La pregnanza delle singole “posizioni” è data così dall’esaltazione delle passioni e dei sentimenti, più che dal dinamismo delle azioni. Non a caso il motore della vicenda è rappresentato dalle streghe: l’elemento irrazionale, visionario, personificazione delle fantasie e delle pulsioni inconsce di Macbeth.

Un’opera sperimentale, dunque. Per alcuni versi bifronte. La tensione narrativa si accumula per esempio attraverso il contrasto delle linee vocali dei personaggi. Da un lato abbiamo la presenza di arie cantabili, riservate ai ruoli secondari di Macduff e Banco, in cui la voce ha modo di distendersi morbidamente sulla linea melodica. Dall’altro emerge invece il singolare assetto di Macbeth e della Lady, dove si concentra il fuoco dell’attenzione verdiana, tesa a una rabbiosa ricerca di precisi effetti vocali ed espressivi. La partitura è costellata di una miriade di didascalie drammaturgiche, di segni dinamici e d’espressione, che raccomandano a seconda del momento scenico: con esclamazione, cupo, misterioso, parlante, sottovoce, con voce soffocata e un po’oscillante…Un bombardamento di prescrizioni che hanno lo scopo di penetrare nell’aggrovigliato mondo dei due protagonisti.

Il superbo, prevaricante personaggio di Lady Macbeth ha una conformazione vocale ambigua e richiede un fraseggio e un accento che non sempre coincidono con quello verdiano tradizionale (incisivo e scolpito). Verdi non voleva per questo ruolo una bella voce, bensì una Lady “brutta e cattiva”, dalla voce “aspra, soffocata e cupa”. Anche il tormentato Macbeth, a parte una concessione al lirismo  e alla nobiltà (“Pietà, rispetto, amore”), deve saper piegare la voce baritonale a suoni ora sommessi e allucinati, ora ritemprati da non sopite vocazioni guerresche e regali.
Nel Macbeth quindi c’è ancora spazio per il canto allo stato puro, ma prevalgono i recitativi, rapidi, spezzati, la volontà di imporre a certe parole una forza esplosiva per acuire il senso incombente di allucinazione e fatalità. È, in definitiva, la ricerca di un nuovo rapporto fra canto e declamazione, secondo una disposizione sperimentale che pone le basi di quella che Verdi avrebbe successivamente definito “parola scenica”.

In copertina, Anna Netrebko in una immagine del Macbeth in scena alla Scala di Milano
Photo: Brescia e Amisano

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino