Demoniache, tetre, sensuali: le grandi Lady Macbeth scaligere
Giuseppe Verdi non voleva che fosse una voce bella a interpretare la parte della Lady nel Macbeth. In una lettera spesso citata del 1848, indirizzata a Salvatore Cammarano, scrisse che Eugenia Tadolini “canta alla perfezione e io vorrei che Lady non cantasse. La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente: e io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa”. La voce, come il gesto scenico, dovevano insomma riflettere, nelle intenzioni verdiane, l’ambizioso progetto che il personaggio ha di votarsi alla sete di potere, senza fermarsi dinanzi a nulla per ottenere il trono, anche a costo degli atti delittuosi più estremi, compiuti inducendo l’uomo che le sta al fianco alla realizzazione di ciò che serve all’approdo del risultato tenacemente perseguito. Macbeth stesso appare spesso vittima, debole e incapace di reagire, dinanzi a questa ambizione smodata; la Lady, che ne è l’emblema, non teme neanche quei fantasmi che invece turbano e offuscano la mente incerta del suo compagno nella scena del banchetto per il rimorso del delitti compiuti. Alla fine anche lei cederà alla follia dopo questa smodata corsa verso il male per il traguardo del potere, ma quel velo di orgoglio che l’attraversa resta vivo anche nella parole del sonnambulismo, quando Verdi costruisce quel declamato tutto impostato sul valore della “parola scenica”, quella in grado di aderire totalmente alla forza drammatica del momento in cui la fierezza indomita cede ai voleri del destino.
Nel lungo e significativo percorso che ha visto Macbeth apparire sulle scene scaligere nel corso del Novecento fino a oggi, molti sono stati i soprani che hanno toccato vertici esecutivi per certi versi entrati nella storia, capaci di segnare momenti decisivi nella storia dell’interpretazione di questo personaggio.
Questo percorso novecentesco nasce dallo storico 7 dicembre 1952, quando Victor de Sabata, allora direttore musicale della Scala, decise di mettere in scena l’opera ad apertura di stagione. Si trattava di una sorta di novità per tempi in cui si riteneva Macbeth, se non opera minore, certo non oggetto delle attenzioni che oggi l’hanno fatta entrare nel repertorio di tutti i teatri.
In quella occasione, nella panni della Lady, ci fu Maria Callas, non ancora sotto i riflettori della fama come lo sarà negli anni successivi, quando divenne diva incontrastata delle scene scaligere oltre che, dopo il ben noto dimagrimento, icona di stile ed eleganza; eppure era già pronta a scrivere, con questa sua prova, una pagina indelebile nella percorso interpretativo del personaggio verdiano. La registrazione dal vivo di quelle recite mostra in Maria Callas una Lady di travolgente incisività. Quando de Sabata attacca in orchestra “Vieni! t’affretta! Accendere” l’orchestra sembra disegnare in musica il male che spinge la Lady al delitto. L’energia, l’accento, quella che Rodolfo Celletti definì la “solennità demoniaca” che la Callas trasmetteva in questo tempo “Maestoso” non sono che una delle tante caratteristiche che fanno grande la sua visione, qui come nelle sonorità tetre e sinistre, quasi ancestrali, che la grande cantante greca sapeva ottenere intonando il brindisi, ma soprattutto “La luce langue”, dove il canto si caricava di una forza interiore visceralmente votata al delitto. Una visceralità così sentita che forse, in successive interpreti scaligere della parte, non si ascoltò più declinata con tale vigore espressivo.
Perché dodici anno dopo, nel febbraio 1964, quando Macbeth tornò sul palcoscenico della Scala, ne furono interpreti Birgit Nilsson e, in secondo cast, Leyla Gencer, quest’ultima, sul modello lasciato dalla Callas, impostata su un gioco di accenti commisurati al senso della parola anche a scapito dell’omogeneità fra dei registri, ma teatralmente efficacissima. La grande cantante svedese, invece, insuperata protagonista di Turandot, si impose per la vocalità torrenziale, ma non toccò i vertici callasiani per quella mancanza di accento che dovrebbe andare ben al di là di uno strumento vocale d’acciaio come fu quello della Nilsson, che chiudeva il personaggio in una guaina di algida e tagliente freddezza.
Si dovette aspettare undici anni, poi fu la volta di un’altra data storica scaligera, questa volta memorabile: 7 dicembre 1975. A Macbeth fu ancora assegnato il compito di aprire la stagione con un allestimento, affidato alla regia di Giorgio Strehler e alla direzione di Claudio Abbado, che fece epoca, legato ad anni in cui il marchio della qualità scaligera faceva tendenza nel mondo, fuori da quella globalizzazione qualitativa che spesso rischia di rendere meno distintivi i risultati oggi ottenuti sulle sue scene. In questo caso, la varietà di colori e la levigatezza ottenute in orchestra dalla direzione di Abbado si riverberarono sulla Lady di Shirley Verrett, voce anfibia, in bilico fra mezzosoprano e soprano, bella per timbro e fascinosa per una presenza scenica statuaria che i lunghi mantelli di Luciano Damiani (che firmò scene e costumi di questo leggendario spettacolo) valorizzavano mettendo l’accento sulla regale impostazione di un personaggio che la cantante americana delineò con un equilibrio drammatico studiatissimo, in simbiosi con una direzione che permise alla splendida vocalità della Verrett di realizzare un fraseggio sottile e mai compiaciutamente altero; un fraseggio che giocava di cesello non dimenticando di bearsi di quella bellezza timbrica che era propria a questa grande cantante. Non più un’eroina del male, come fu la Lady della Callas, o ieraticamente rigida e teutonica come quella della Nilsson, bensì donna che ancora mantiene, vuoi per indole vuoi per intrinseche caratteristiche timbriche, quel velo di femminilità che Elvio Giudici descrisse notando come sapesse “infiltrare negli scatti e negli oscuri meandri della psiche di Lady una percettibile sensualità che esala spontaneamente dalla fascinosa bellezza del timbro e dalla morbidezza dell’emissione”. Insomma una Lady, quella della Verrett, che non rinuncia a essere donna e a sedurre chi l’ascolta e la vede non solo come emblema del male. Fu un’interpretazione nuova, per certi versi sconvolgente, riproposta quando questo storico allestimento tornò sulle scene scaligere nel 1979.
Quando invece Abbado lo riprese nel 1985, un’altra Lady si impose sulle scene scaligere come sui palcoscenici di tutto il mondo di quegli anni, quella di Ghena Dimitrova, voce torrenziale, sprezzante fino all’eccesso, capace, se in serata buona, anche di piegare il suo opulento strumento vocale alle sottigliezze del re bemolle in pianissimo che conclude del sonnambulismo. Ma era chiaro che alla vocalità portentosa della cantante bulgara, una delle voci drammatiche più sensazionali ascoltate alla fine del Novecento, interessasse far gioco sulla maestosità che metteva in essere le qualità caratteriali più d’impeto che di sottile ricerca del dettaglio espressivo. Eppure va detto che, dopo di lei, più nessuna cantante è riuscita, sulle scene scaligere, ad ottenere risultati vocali tanto altisonanti per compattezza di suono e ampiezza d’armonici.
Neppure Maria Guleghina, soprano ucraino che Riccardo Muti volle quando Macbeth tornò a inaugurare la stagione scaligera, questa volta il 7 dicembre 1997, con il nuovo allestimento di Graham Vick, quello del “cubo scenico” studiato dal noto regista recentemente scomparso per imbrigliare misteri, giochi di potere e complotti che la vigorosa bacchetta di Muti esaltò al massimo grado, trovando in un suono sinistro e vibrante quelle suggestioni arcane che la vocalità importante, ma non sempre espressivamente ispirata della Guleghina, seppe ottenere con pari profondità. Pochi anni dopo, quando questo spettacolo venne ripreso nell’ottobre 2001 e poi nell’agosto 2003 in tournée in Giappone, Muti diede fiducia a Paoletta Marrocu, interprete prima ancora che voce capace di svelare, con una sorprendente forza di volontà espressiva, le ragioni di una Lady grifagna e tutta nervi a fior di pelle. Caso emblematico, per questo significativo, in cui la forza dell’artista prevale sulla qualità dello strumento vocale. L’allestimento di Vick venne ripreso nel 2008, questa volta diretto da Kazushi Ono, con il soprano lituano Violeta Urmana nei panni di Lady Macbeth. Ma la sua prova, seppur ragguardevole, non ha lasciato un segno significativo, né tanto meno fece storia quella del soprano venezuelano Ana Lucrecia García, che ne vestì i panni quando l’opera venne diretta da Valery Gergiev nel 2013, anno del bicentenario verdiano, con la produzione di Giorgio Barberio Corsetti.
Oggi tocca alla russa Anna Netrebko, diva incontrastata dei nostri giorni, scrivere un’altra si presume significativa tappa scaligera nel percorso delle grandi Lady apparse su queste scene. Le recenti prove offerte in questa parte su altri prestigiosi palcoscenici internazionali sembrerebbero confermarlo e, in questo caso, ci sarà il valore aggiunto di una bacchetta come quella di Riccardo Chailly, attenta a sviscerare nuove idee espressive rispetto a quelle fino a oggi già messe in essere da Anna Netrebko in una parte che ormai è suo indiscusso cavallo di battaglia.