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Artisti all’Opera – Salvatore Fiume, il Teatro alla Scala e Maria Callas

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Figura sfuggente, proteiforme e imprevedibile, quella di Salvatore Fiume (1915-1997). Nato in Sicilia, a Comiso, e qui formatosi presso la Scuola d’arte, per poi studiare al Regio istituto d’arte del libro di Urbino, Fiume è un artista poliedrico e a tutto tondo: nel corso della sua carriera si occupa, infatti, di pittura, scultura, scenografia, architettura e scrittura, sperimentando via via e spaziando fra tematiche e tecniche, dal linguaggio metafisico a quello naïf, dalle sculture policrome in poliuretano espanso e stucco a quelle in bronzo e alle ceramiche. La sua caleidoscopica esuberanza è suggerita anche dai molteplici viaggi compiuti, nell’arco della sua esistenza, prima in Italia e, in un secondo momento, verso mete sempre più lontane: Egitto, Giappone, Bali, Somalia, Etiopia, Senegal, Costa d’Avorio, Mali, Brasile, Guinea, Tahiti. Nonostante questo prorompente vagare, il suo cuore resta però saldamente legato alla cittadina di Canzo, in provincia di Como, e alla sua vecchia filanda, la Ca’ Verza, località eletta da Salvatore a suo buen retiro a partire dal 1946.

Soffermandoci ora sull’attività di Fiume scenografo e costumista teatrale, lasciamo brevemente la parola a Vittoria Crespi Morbio e al suo agevole volumetto del 2008: “Per il teatro l’artista si fa architetto immaginario, scultore stravagante, pittore umorale; i suoi allestimenti si aprono a multiformi ispirazioni dettate da ricordi, omaggi culturali, sensazioni temporanee accomunate da una pittura densa, gravida, solenne e al contempo spumeggiante”. A partire dal 1952, Salvatore Fiume disegna scene e costumi per 12 spettacoli: I Capuleti e i Montecchi al Teatro Massimo di Palermo, nel 1954, con Giulietta Simionato e Rosanna Carteri dirette da Vittorio Gui; Rigoletto per una produzione RAI del 1955, con regia di Mario Frigerio e, fra gli altri, il baritono Aldo Protti e il soprano Virginia Zeani; nel 1957 Aida al Covent Garden di Londra, protagoniste Amy Shuard e Fedora Barbieri; Il campanello dello speziale a Montecarlo, negli anni Novanta. Ma è soprattutto al Teatro alla Scala, dove viene presentato dal collega Alberto Savinio (fratello di Giorgio de Chirico), che l’artista può dare sfogo alla propria immaginifica creatività, confezionando ben otto spettacoli tra opere e balletti. Allestimenti contraddistinti da colori sensuali e densi, da uno stile istintivo, pulsante e imprevedibile, non privo di estrosità, a tratti viscerale e in odore di sovversione.

Si susseguono così, sulle antiche tavole del Piermarini, le imponenti forme antropomorfe e la violenta tavolozza pittorica de La vita breve di de Falla e del balletto eroico-allegorico su musica di Beethoven Le creature di Prometeo (1952); la Ravenna grandiosa e fantasiosa del melodramma di Ottorino Respighi La fiamma, diretto da Gavazzeni nel 1955 con le voci di Elena Nicolai, Inge Borkh, Giacinto Prandelli e Paolo Silveri; il monumentale classicismo velatamente rinascimentale del Nabucco del 1958 con Antonino Votto alla guida di cantanti del calibro di Ettore Bastianini, Anita Cerquetti e Nicola Zaccaria; il Guglielmo Tell del 1965 con Francesco Molinari Pradelli, Giangiacomo Guelfi e Gianni Raimondi, di sapore goyesco e con rimandi ad ambientazioni siberiane e lapponi; la Spagna ancestrale del balletto Iberica su coreografia della danzatrice Mariemma e musica di Ravel, in cui il palco è dominato da un gigantesco e vigoroso toro (1967).

Due sono, però, le produzioni scaligere di Fiume divenute iconiche (entrambe con regia di Margherita Wallmann), per la presenza nel cast di colei che diverrà una delle sue muse, ispiratrice di una inventiva fervida e vivace: Maria Callas. Al 1953 risale la storica Medea con, sul podio, un giovane Leonard Bernstein: per essa, Fiume concepisce uno spazio quasi atemporale, improntato a una classicità remota e immaginaria, sulla quale incombono le “città e isole di statue”, tematica molto cara all’artista specialmente tra anni Quaranta e Cinquanta, ovvero architetture concepite come enormi sculture antropomorfe e zoomorfe. Con questa visione ben si sposano i costumi, essenziali e rigorosi, indossati dalla Callas, fatti di pittura pura e di asciutti segni geometrici. Il 7 dicembre 1955 debutta, invece, una versione ancestrale e romanticamente selvaggia di Norma, con Antonino Votto, Giulietta Simionato e Mario Del Monaco, ripresa nel 1965 con un cast differente (Leyla Gencer e Bruno Prevedi diretti da Gavazzeni). Pure in questo caso, la scena è dominata da mastodontiche strutture in pietra, movimentate dall’irrompere di una natura selvatica, nervosa e scarmigliata, e dal candore degli abiti del celebre soprano.
Un legame, quello tra l’artista siciliano e la diva greca, indissolubile, come testimonia anche il maestoso olio su tela del 1959 Il palcoscenico, oggi esposto nel foyer dell’Auditorium “Giovanni Testori” del Palazzo Lombardia a Milano: omaggio al variopinto universo del teatro d’opera, nell’affollato dipinto si staglia, sulla destra, la regale figura di Maria Callas.

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