“Signora, ci firma il programma, si fa una foto con noi?” Nel maggio 1962, lunghe fila di fan attendevano puntualmente Victoria de los Ángeles, il celebre soprano catalano, alla fine delle recite di Barbiere di Siviglia, Pelléas et Mélisande e dell’unico concerto – tutto esaurito – al Teatro Colón di Buenos Aires, dove l’artista è stata (ed è tuttora) una leggenda dal debutto nel 1952 con Madama Butterfly e Manon fino all’ultima esibizione concertistica nel 1992. Dieci anni dopo, quando ritornò in Argentina e una pioggia di fiori l’accolse al momento di scendere dall’aereo, disse all’accompagnatore: “Chissà chi starà arrivando?”. Non appena si accorse che erano per lei, si mise a ridere tra le lacrime e ci riconobbe: “Siete cresciuti ma sempre gli stessi pazzi: andate a studiare e non perdete il tempo in questo modo”. “Ma signora…”. “Chiamatemi Victoria”. Oggi un busto, replica di quello che si può vedere al Palau de la Música di Barcellona, si trova al Colón collocato di fronte a quello di Ninon Vallin, soprano francese anch’essa amata e riverita dagli argentini.
Victoria de los Ángeles si considerava un soprano lirico puro, anche se con un registro centrale e soprattutto grave da far pensare a un mezzosoprano. Il che spiega, per esempio, la sua Rosina incisa due volte rispettando le note scritte da Rossini, ma anche la Salud de La vida breve di de Falla o i due ruoli di Pirene e Isabella la Cattolica nell’ultima opera del musicista spagnolo, Atlántida, eseguita in prima mondiale al Liceu di Barcellona, per non parlare della Charlotte nel Werther. Se si approfondisce il discorso, si vede però che veniva definita, nella sua stessa epoca, una specie particolare di Falcon o addirittura di soprano lirico-leggero. È difficile che un cantante – soprattutto se considerato uno dei principali del suo tempo – convinca all’unanimità (basti citare Celletti per un giudizio non positivo). Ma va ricordato anche che Lauri Volpi nelle sue Voci parallele le dedica un capitolo senza pendant perché la considera una delle voci isolate (le altre sono quelle della Callas, di Marian Anderson, Cotogni, e naturalmente la propria): le 25 righe che le dedica sono un ditirambo pindarico tipico del tenore.
Quando proprio la Callas nel momento più critico del conflitto con il Metropolitan di Bing la definì “l’unico fiore nel letamaio del Met”, alcuni aprirono gli occhi. La de los Ángeles (ovvero Victoria) non era un nome che si trovasse coinvolto negli “scandali” lirici di allora. La sua era una vita discreta, in apparenza tranquilla, anche se problemi e dispiaceri non erano per niente assenti nel suo quotidiano e anzi si sono fatti sempre più pesanti con il tempo. Non amava le interviste, e nell’ultima che aveva accettato di rilasciare solo perché gliela chiedeva un amico, il sottoscritto, pose chiaramente dei limiti: “Quando te lo dico, spegni il registratore, perché ti dirò delle cose che non voglio che si vengano a sapere né in vita né dopo la mia morte”. Non ne parlammo più: so che la lesse con molta attenzione e non fece commento alcuno. Conoscendola, lo considerai un segno di approvazione.
“Sweet Victoria”, come la chiamava il pubblico negli States e nel Regno Unito, non era temperamentosa, ma aveva comunque il suo bel caratterino, fin dagli inizi. Nel 1950, litigò con Karajan durante le prove del Don Giovanni alla Scala perché non era d’accordo con il suo modo di lavorare. Quando il Maestro si fermò chiedendole di attenersi a quanto le indicava, lei rispose tranquillamente: “il mio contratto non prevede questo”. Ovviamente, dopo quell’episodio le sue esibizioni a Vienna furono scarsissime (a Salisburgo non cantò mai). A un direttore spagnolo che non riusciva a ottenere dall’orchestra un fraseggio importante anche per il canto, tolse la bacchetta dalle mani per poi spiegare ai professori sbalorditi quanto si pretendeva da loro. Anche con maestri che l’adoravano e con i quali aveva ottimi rapporti “litigava” per questioni musicali. L’incisione della celebre Carmen a Parigi con Beecham rischiò di naufragare: Victoria chiese insistentemente di rifare la Séguidilla, il maestro si rifiutò perché per lui andava benissimo così com’era: lei chiuse la partitura e se ne andò. Il giorno dopo, il non tenero Beecham chiedeva furibondo: “Where is my Carmen?”. Quando lo informarono, non senza timore, che se n’era tornata a Barcellona, scoppiò a ridere: “Ieri aveva ragione, ma noi avevamo fretta. Adesso vedremo”. La registrazione riprese un anno dopo e la Séguidilla venne rifatta (ascolto). La cosa più curiosa è che Toscanini la voleva per i suoi concerti, ma non riuscivano mai ad accordarsi con le date. Finalmente spuntò un Natale per una Messa di Bach, ma Victoria fece sapere che lei non aveva intenzione di perdere le feste con la famiglia a Barcellona. E la collaborazione con il Maestro non avvenne mai.
Tra le registrazioni che non andarono in porto, ce n’erano alcune che Victoria rimpiangeva: la morte di Furtwängler cancellò Der Freischütz e I Maestri Cantori. Un Onegin in francese con Gedda e la direzione di Markevitch restò allo stato di progetto. Walter Legge, produttore della EMI, era famoso anche per non cedere alle richieste delle sue star, tranne ovviamente una. La Callas non riuscì a incidere né Macbeth né Bolena. Victoria batteva invano il ferro su Louise e Mignon. Legge preferiva fare una seconda incisione di titoli noti e fatti al meglio, piuttosto che esporsi con altri non proprio popolari o dimenticati. E così Victoria incise due volte Butterfly, Faust (chiedendo inutilmente di fare almeno la scena che allora si tagliava all’inizio del quarto atto), Barbiere e La vida breve. Non ci fu invece una seconda Bohème: l’incisione iniziò ma la cantante rimase incinta e, dopo un primo atto di cui non era soddisfatta, lasciò il posto a un’altra grande Mimì, Mirella Freni.
Nata il 1° novembre 1923 da padre andaluso e madre castigliana, crebbe praticamente all’Università di Barcellona, dove il papà svolgeva le mansioni di bidello e la famiglia abitava in un’ala del palazzo che oggi è diventata, in parte, sede della Fondazione che porta il suo nome. Quasi settant’anni dopo, venne insignita di una laurea honoris causa che per la prima volta veniva concessa a un cantante. Proprio nella stessa sala dove da piccola canticchiava quando non c’erano studenti, ricevette il riconoscimento scusandosi di non fare un discorso: “l’unica cosa che so e posso darvi è il mio canto”. E per la prima volta la lectio magistralis si trasformò in un concerto (poi riversato in disco). Victoria era diventata adolescente alla fine della terribile guerra civile, prologo e quasi prova generale della seconda guerra mondiale. Spinta dalla sorella maggiore, decise di tentare la fortuna presso il conservatorio del Gran Teatre del Liceu: cantava così bene che gli studenti le chiedevano di esibirsi nei fine settimana, mentre lo zio l’accompagnava con la chitarra. Sotto la guida di Napoleone Annovazzi e Dolores Frau, completò in tre anni e con il massimo dei voti un ciclo di studi che normalmente durava cinque, e contemporaneamente incominciò a guadagnare qualche soldo per aiutare la famiglia in quei tempi davvero difficili. Dopo una Bohème in un teatro di Barcellona, nel 1944 debuttò ufficialmente al Palau de la Música in un concerto con l’ensemble Ars Musicae (che tanta importanza ebbe nella sua formazione cameristica e personale) e nel 1945 al Liceu con la Contessa mozartiana (ascolto). Dopo il primo premio al Concorso di Ginevra nel 1947, spiccherà la carriera internazionale. Il suo interesse per il Lied l’accompagnò dunque fin dall’inizio e, dopo il 1965, divenne quasi esclusivo a fronte di poche recite operistiche (ascolto).
La sua tipologia vocale e il fatto di essere spagnola le procurarono difficoltà un po’ ovunque. Già nel 1948 si presentava alla Scala per la prima italiana di Ariadne auf Naxos di Richard Strauss (in italiano): “Potevo cantarla senza problema, ma poi mi ritrovavo con una voce troppo appesantita per cantare Schubert o Brahms, a cui non volevo rinunciare. In tanti credono che se si canta un’aria senza problemi si possa cantare l’opera intera. Ebbi già un problema con la mia insegnante, che mi faceva cantare “Vissi d’arte” e ho dovuto lottare perché non mi facesse studiare tutta l’opera. Quando ho avuto l’occasione di incidere un disco di arie italiane, subito mi offrirono Ernani a Roma… Viceversa il mio rapporto idillico con il Met e Rudolf Bing s’interruppe quando, dopo due stagioni di Martha in inglese, dissi che non l’avrei cantata più neanche nell’originale e, da quel momento, dopo dodici anni di collaborazioni suonò per me il campanello di uscita. Ho cantato in pubblico perfino l’aria di Leonore del Fidelio e una delle due del Ballo in maschera. Ma anche con la musica da camera ho trovato degli ostacoli. Una cosa è cantare un concerto, un’altra fare un disco. Io ero già molto amata a Londra, ma Walter Legge – che certo mi apprezzava – non solo non mi faceva registrare opere poco “popolari” ma dubitava della mia idoneità linguistica al Lied. Essendo testarda, quando rifiutai un disco privo di canzoni in tedesco, finalmente chiamò a mia insaputa Elena Gerhardt, insigne mezzosoprano interprete fondamentale di Hugo Wolf, che allora abitava a Londra, invitandola a un mio recital. La signora Gerhardt non proferì parola durante tutto il concerto e alla fine gli disse: “Questa signora canta come lei intende che si debba cantare il Lied. Il tedesco è buono; certo non canta ‘alla tedesca’ ma il problema dov’è?”.
Ecco, invece il problema stava proprio lì. Victoria de los Ángeles non è stata mai un soprano ‘assoluto’, né una di quelle cantanti che aspirano ad avere il record di ruoli, di inaugurazioni ecc. Le parti da lei più amate e frequentate erano Mimì, Butterfly, la Contessa delle Nozze, Rosina, Desdemona, Manon, Marguerite, Mélisande, Salud e, fra quelle del ‘suo’ Wagner, soprattutto Elsa ed Elisabeth. Altri ruoli li incise senza averli mai cantati dal vivo, cosa che non le piaceva per niente. Victoria cantava tutto quel che cantava come lei lo intendeva a partire dallo studio della partitura: “Dov’è il senso di una frase, il carattere di un personaggio? Nelle note scritte dall’autore. È meglio capire bene le parole – e leggere quindi tanto, magari poesia soprattutto”.
Un grande evento fu la prima assoluta in forma di concerto della Atlántida di de Falla (in catalano) nel 1961 al Liceu. Ma un altro ancora forse più grande per lei (e un vero trionfo) arrivò nello stesso anno. Dopo un concerto ad Amburgo, si presentò a salutarla Wieland Wagner. Era alla ricerca di una ‘nuova’ Elisabeth per il Festival di Bayreuth e le chiese se avrebbe avuto tempo e piacere d’impararla. Il lavoro con Wieland (e con Grace Bumbry, la ‘Venere nera’) fu ideale per due anni di seguito finché la gravidanza le impedì cantare il Lohengrin.
I suoi due figli, avuti piuttosto tardi per quei tempi, sono stati i suoi unici veri e grandi amori. Il primo venne a mancare giovanissimo a causa di un diabete che lo martoriava fin da piccolo; dopo quella tragedia, la carriera s’interruppe definitivamente nel 1994. Victoria De Los Ángeles se ne andò per colpa di una polmonite il 15 gennaio 2005, poche settimane dopo Renata Tebaldi. Le sue ultime parole – ero presente insieme alla sua grande amica e quasi nuora, e attuale presidente della Fondazione – sono state per ricordare la sua adorata Mimì e per dirci: “Se non torno a parlare o non mi risveglio non rattristatevi: non fosse per Alex – il secondo figlio, un angelo sindrome di Down che l’ha raggiunta due anni or sono – me ne andrei volentieri. Non mi piace questo mondo, non mi piace per niente”.
Jorge Binaghi è giornalista, critico musicale e cofondatore della
Fondazione Victoria de los Ángeles di Barcellona