Vi sono voci che parlano all’istinto e al cuore di un ascoltatore prima che alla sua sensibilità musicale. La voce di Giuseppe Di Stefano è una di queste. Anche chi non lo ama, anche chi ha sempre sottolineato con la matita rossa i suoi limiti tecnici (soprattutto in acuto e soprattutto a fine carriera) non può non riconoscergli un timbro di rara bellezza, forse il più bel timbro tenorile del secolo appena trascorso. Un colore vocale, il suo, che affascinò le platee di mezzo mondo e che non manca di sedurre ancor oggi ascoltando le sue numerosissime incisioni discografiche, alcune realizzate in studio e altre captate precariamente dal vivo.
Nato a Motta Sant’Anastasia, un bel paese in provincia di Catania, il giovanissimo Di Stefano, trasferitosi a Milano con la famiglia, rivelò ben presto notevolissime doti vocali. Dopo alcune fortunose esibizioni sotto lo pseudonimo di Nino Florio, allo scoppio della seconda guerra mondiale fu internato in Svizzera. È a quegli anni che risalgono le celebri esibizioni a Radio Losanna. Nonostante non avesse ancora studiato seriamente canto, in queste primissime incisioni Giuseppe Di Stefano rivela quale fosse il suo esatto repertorio, quello a cui avrebbe dovuto rimanere fedele: il repertorio del “tenore di grazia”. In queste precoci esibizioni lo ascoltiamo smorzare e rinforzare i suoni con grande naturalezza, cantare a mezza voce senza scivolare nel falsetto (come gli capiterà in seguito), esibire una smaltatura vocale di seducente bellezza.
Terminata la guerra, a venticinque anni il giovane tenore debuttò al Comunale di Reggio Emila con la Manon di Massenet, opera che lo vedrà trionfare anche al Teatro alla Scala nel marzo 1947 al fianco di Mafalda Favero. Sarà poi la volta del Metropolitan di New York, dove nel 1949 si esibì in una memorabile esecuzione del Faust di cui per fortuna resta testimonianza discografica. Incisione celeberrima, per il virtuosismo compiuto dal cantante di smorzare il do acuto durante la romanza “Salut! demeure chaste e pure” (ascolto). L ‘allora sovrintendente del teatro statunitense Rudolf Bing lo definì “un suono di una bellezza indimenticabile”. Il ritorno in Europa nel 1952, il contratto in esclusiva con la Emi e le molte incisioni ufficiali spesso al fianco di Maria Callas, appartengono al Di Stefano più conosciuto e popolare.
A partire dal 1953 iniziò il precoce declino, dovuto a un repertorio troppo pesante per la sua brillante ma delicata voce, nonché per alcune intemperanze di vita che lentamente, ma inesorabilmente, intaccarono il prezioso strumento vocale, togliendo squillo agli acuti e costringendo spesso il cantante a forzare nei momenti più tesi. Gli rimase intatta la grande naturalezza di fraseggio, una dizione impagabile per nettezza e intelligibilità, capacità di immedesimazione assolutamente eccezionali. Sentirlo accentare “Mamma …mamma…quel vino è generoso” in Cavalleria rusticana (ascolto), o intonare con la sua solare e pateticissima voce il recitativo “E lucevan le stelle” della Tosca mette ancor oggi i brividi. Lo stesso potrebbe dirsi di un ruolo che non sempre viene associato a Di Stefano, quello di Pinkerton della Madama Butterfly. Raramente il vanesio e superficiale personaggio pucciniano troverà un interprete capace di evidenziarne il lato sensuale e predatorio come fece il tenore siciliano. Così come capitò a sua tempo con Caruso, anche Giuseppe Di Stefano provocherà una schiera di imitatori-epigoni che tenteranno di rinverdirne i fasti. Fra tutti, il più celebre è stato José Carreras, anche lui in possesso di un timbro malioso ed estroversione di fraseggio per qualche aspetto paragonabili a quelli del tenore catanese.
Un discorso a parte meriterebbe il suo sodalizio con Maria Callas. L’amicizia, il sostegno reciproco, fra i due non vennero mai a mancare. Certamente appartenevano a due scuole di canto per certi versi agli antipodi (il tenore ideale per la Callas avrebbe potuto essere Aureliano Pertile), ma innegabilmente ciò che la Callas raggiungeva con l’intuito e l’intelligenza Di Stefano lo faceva con l’istinto di un grande animale da palcoscenico. E almeno in due casi, Tosca e Lucia di Lammermoor, la loro collaborazione attinse a risultati di levatura storica indiscutibile.