Durante gli anni Cinquanta del secolo appena trascorso le voci tenorili che avevano più fascino e presa sul pubblico erano quelle portate a una estroversione “generosa” ed eclatante, inclini a un realismo spesso esacerbato nel quale i pregi e i vezzi del Verismo musicale avevano modo di insinuarsi anche in autori e composizioni che poco o nulla avevano da spartire con tale estetica. Fra le poche eccezioni, almeno in Italia e prima dell’avvento di un Kraus e di un Bergonzi, vi è quella di Cesare Valletti, “tenore di grazia” nella sua più luminosa accezione.
Nato a Roma nel 1922, Valletti si perfezionò con il grande Tito Schipa, incarnazione stessa del tenore romantico e di grazia, al quale fu spesso accostato forsanche perché Valletti, soprattutto nel tratteggiare alcuni personaggi, prese il suo maestro a evidente modello. Entrambi furono abilissimi nel gioco dei chiaroscuri, nella capacità di smorzare e filare i suoni, nell’eleganza del porgere la frase senza forzature o effetti di dubbio gusto. Piuttosto limitato in alto (anche Schipa lo era), Cesare Valletti toccava però agevolmente il si acuto e, a suo modo, possedeva un notevole squillo. Dopo il debutto a Bari in Traviata (nel 1947) seguirono quelli all’Opera di Roma, al San Carlo e al Covent Garden. Fu poi la volta del Teatro alla Scala, dove il tenore romano cantò dal 1950 al 1955, prima della partenza per il Metropolitan di New York dove si esibì ininterrottamente fino al 1960, interpretando molti dei ruoli ai quali è legata la sua fama. Dopo una lite con Rudolf Bing, sovrintendente del teatro americano, fece ritorno in Italia cantando spesso al Maggio Musicale Fiorentino. Grandissimo interprete del Donizetti più amabile, Valletti ha trovato nell’Ernesto del Don Pasquale e nel Nemorino dell’Elisir d’amore i suoi personaggi d’elezione. Nessuno dopo di lui, nemmeno il Kraus e il Pavarotti dei tempi migliori, ha saputo innervare di tale soffusa elegia il canto di questi due campioni del languore amoroso. Il suo “Adina credimi”, la sua “Furtiva lagrima”, sono giustamente celeberrimi (video). Ancor più stupefacente, per eleganza e grazia, la Serenata di Ernesto del Don Pasquale.
A Bellini il tenore si accostò con sacro timore. Ma il suo Elvino della Sonnambula, cantato a fianco di una strepitosa Maria Callas, fa ancor oggi testo per la sensibilità di un fraseggio che non teme il confronto con quello del soprano greco (ascolto). Personaggi, quelli fin qui citati, che Valletti ebbe in comune con Schipa, così come l’altro ruolo che trovò in lui la continuazione di una gloriosa tradizione: quello di Werther. Una tradizione che vede nel sofferente personaggio creato da Goethe e Massenet un poeta malato nell’anima, dolorosamente in bilico fra esaltazione e ripiegamenti nostalgici. Il Werther di Valletti anticipa, per molti aspetti, quello mitico di Alfredo Kraus, ma con più calore e spontaneità, anche se meno dotato in acuto (ascolto). Mozart e Rossini sono altri due compositori che trovarono in lui un interprete ideale. Il Conte d’Almaviva del Barbiere di Siviglia (Valletti fu tra i primi a eseguire in epoca moderna il difficile rondò finale del Conte) e, soprattutto, Don Ottavio del Don Giovanni si segnalano per la nobiltà del fraseggio e la capacità di eseguire le agilità di forza senza tentennamenti (ascolto). Con Verdi l’approccio fu, giustamente, molto cauto. Alfredo della Traviata e Fenton del Falstaff furono, in pratica, gli unici ruoli affrontati in scena. Impossibile, però, non citare la sua magnifica esecuzione di “Quando le sere al placido” della Luisa Miller in un concerto Martini & Rossi del 1951, da Rodolfo Celletti paragonata a quelle, paradigmatiche, di Anselmi e Pertile (ascolto). Bravo concertista (notevole la sua interpretazione del Dichterliebe di Schumann), Cesare Valletti seppe proporre nei suoi recital pagine spesso non convenzionali e scontate. In tal senso una vera lezione può essere considerata la sua interpretazione dei “Pastori” di Ildebrando Pizzetti sul celebre testo di D’Annunzio (ascolto).