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Tradizione o avanguardia? Tracce di riflessione per una rinascita dell’opera lirica

Ci risiamo. Ancora ci si chiede se sia giusto o sbagliato modernizzare gli spettacoli d’opera facendoli dialogare con la contemporaneità per tornare a rendere il genere popolare, come lo era un tempo, così da interessare nuove e più giovanili fasce di pubblico. La risposta, qualora ci sia, non va cercata sposando le correnti di pensiero che hanno portato l’opera lirica a divenire quello che è oggi, talvolta abbrutendola. Di questo dovrebbero convincersene i culturalisti forzati dell’aggiornamento registico a oltranza, che amano definire come sorpassati cultori del “vecchiume” i custodi della tradizione. Nulla di più infondato è il credere che per “svecchiare” lo spettacolo d’opera, per far sì che un capolavoro del passato continui a comunicare al presente il valore del proprio messaggio teatrale, sia opportuno affrancarsi, all’atto della messa in scena, da categorie visive prestabilite e, per questo, ritenute incapaci di mantenere “vivo” e non museale il modo di porsi in sintonia con la sensibilità moderna. Tanto varrebbe allora recarsi con una bomboletta di vernice spray agli Uffizi di Firenze e imbrattare la Venere del Botticelli per poi dire che è più “pop”!

Sarebbe necessario, piuttosto, abbandonare gli snobismi e cominciare a rispettare e amare l’opera lirica per quello che è nella sua essenza, nelle corrette dimensioni di linguaggio e categorie estetiche che la contraddistinguono. A questo si aggiunga che le componenti del melodramma non sono unicamente teatrali, per quanta importanza esse abbiano, ma anche musicali e, soprattutto, vocali, mentre oggi si tende a considerare l’opera privilegiandone l’aspetto visivo. Ed è qui che va individuato l’errore di prospettiva, più che interrogarsi sul come la si debba mettere in scena.
Ecco perché la via giusta da percorrere dovrebbe imporre un ritorno a ciò che nei secoli ha reso amato e considerato il melodramma, riportandolo alla sua dimensione più pura: uno spettacolo di teatro, come di musica e, soprattutto, di voci. I compositori stessi utilizzavano i cantanti per plasmare il proprio stile. Come dimenticare, poi, che il pubblico amava bearsi della magia vocale e si stupiva per essa! È pertanto urgente, quanto necessaria, una rinascita del valore della voce, un nuovo umanesimo dell’artista lirico, che sia artista capace sì di convincere sulla scena, ma funzionale al compositore e ai suoi intenti drammaturgici, non alle trovate balzane e attira mass media di alcuni registi desiderosi di far parlare di sé. I cantanti dovrebbero essere posti al centro dell’attenzione, liberati da vincoli (registici) talvolta assurdi e ricominciare a stupire, senza per questo rinunciare a calarsi nella teatralità, evitando tuttavia di farsi condizionare da essa quando il disegno registico loro imposto appare, con evidenza, drammaturgicamente fuorviante.

Tornare a essere protagonisti – e perché no, quando occorre, pure divi – significa riacquistare la “libertà” di piacere al pubblico, entusiasmandolo (alcuni vivaddio ne sono ancora capaci) e tramandando quella tradizione di “bel cantare” (a fini non solo vocali, ma anche espressivi e, quindi, interpretativi) ora tendenzialmente, se non sopita, messa in ombra. Alcuni cantanti, per comodità e quieto vivere, finiscono coll’accettare di essere ridotti a burattini mossi da un sistema (anche di marketing o di monopolio d’agenzie) che li utilizza per i propri obiettivi ma non ne valorizza le reali qualità. Altri, addirittura, celano la propria mediocrità dietro alla capacità di essere attori abili nel venire incontro alle balzane idee del “teatro di regia”, funzionali in tutto e per tutto al corrente modus operandi. Che poi abbiano qualità vocali più o meno importanti interessa a pochi, non ai registi, quando addirittura neanche a direttori d’orchestra e, in alcuni casi, neanche a chi guida i teatri.

Il pubblico, dinanzi a quanto suddetto, è spesso distrattamente spaesato, la critica in parte accondiscendente al flusso delle “mode”. Le soluzioni per far rinascere l’opera, per tornare ad amarla e riportarla ai livelli di popolarità che l’avevano resa tale in base a imprescindibili valori esecutivi musicali e vocali, vanno quindi ripensate allontanandosi dal volere di chi ha desiderato “svecchiarla” ostinandosi nel perseguire cliché ormai così ripetitivi e scontati da invocare e auspicare un cambio di rotta.
Gli schemi ricorrenti di questo agire sono ritornati agli onori della cronaca in occasione nella messa in scena del Rigoletto di Verdi al Circo Massimo di Roma, della quale in questi giorni si è tanto parlato e discusso, riportando alla luce argomenti triti e ritriti e rinsaldando il dibattito critico mai sopito sull’operato dei registi d’avanguardia, coloro che, nell’opinione di molti, svelano il “nuovo” che c’è nei capolavori del passato. In realtà il Rigoletto firmato da Damiano Michieletto si è rivelato essere uno di quei tanti spettacoli che di nuovo hanno poco o nulla, con una regia nel segno del déjà vu esibizionistico rimodulato per l’ennesima volta utilizzando la drammaturgia verdiana a propri fini, con la scusa di smuovere le coscienze svelando pretestuose sfumature rivelatrici del dramma. Ciò che viene appunto spacciato per illuminante appare in questo spettacolo simile al significato di un verso stesso del libretto di Piave: “che dell’usato più noioso voi siete”.

A questo si aggiunga che la modernizzazione, anche quando plausibile e foriera di idee registiche vincenti, rischia di sferrare un colpo al cuore letale per la vera cultura della tradizione. Mettere in scena oggi un Rigoletto nel periodo in cui è ambientato, alla Corte di Mantova nel Cinquecento, sarebbe sì un vero atto di coraggio; richiederebbe conoscenza del Rinascimento, dello stile visivo in grado di evocarne l’epoca, la cultura artistica, la storia del costume e quant’altro, che ovviamente vanno studiati e assimilati in profondità. Ben più facile è ignorare tutto questo, bandire ogni riferimento al passato e a un operare artistico artigianale che va ahimè scomparendo per inventarsi (si fa per dire, perché nel caso di questo Rigoletto malavitoso e noir, anche un po’ visionario, già altri registi lo avevano pensato così prima di Michieletto, e meglio di lui) un’ambientazione e una regia a proprio uso e consumo drammaturgico, convinti così di rendere attuale i contenuti dell’opera rapportandoli al presente perché le nuove generazioni (pura illusione) ne restino colpite e attratte. Nulla di più scontato.

La sintesi del problema non va cercata nell’eterno dilemma, da ritenersi irrisolvibile, se sia meglio seguire la tradizione o l’innovazione nel concepire uno spettacolo d’opera, ma nel dar giusta importanza a tutte le componenti che contraddistinguono il melodramma, nel rispetto delle specifiche “funzioni” narrative e caratteriali che i personaggi ricoprono nell’economia drammaturgica di un libretto. Il cambio di ambientazione può certamente funzionare, ma solo quando il rapporto col testo non viene travisato. La sfida per questo cambio di rotta sarà ardua. Se non avverrà, l’opera lirica perderà per strada gli autentici valori che l’hanno da sempre resa viva e popolare, concentrandosi solo sull’aspetto visivo, rimestando in un “modernismo” registico provocatoriamente ripetitivo e già di maniera.