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Si è spenta a 93 anni Juliette Gréco, icona della canzone francese

Con Juliette Gréco, morta oggi a 93 anni nella sua Ramatuelle, in Francia, qualunque sala concertistica si trasformava in una cave di Saint-Germain-des-Prés. Bastavano un paio di riflettori, una modesta amplificazione, pochi strumentisti. Bastavano pochi istanti e l’attenzione si abbarbicava su quella figura minuta e pallida, inguainata in un abito nero, lungo e accollato, mentre nella nostra mente si avvicendavano fulmineamente sensazioni e immagini periferiche: Parigi, il secondo dopoguerra, i cabaret di Montmartre, Sartre, il mito dell’esistenzialismo. La capacità di suscitare evocazioni e allucinazioni, del resto, è prerogativa dei grandi attori. E infatti il magnetismo che questa icona della canzone francese esercitava sul pubblico risiedeva solo in minima parte nelle doti canore. Anzi, diciamo pure che, sotto il profilo strettamente vocale, la sua capacità di legare e modulare i suoni era circoscritta a una gamma d’estensione molto ristretta.

No, non si poteva guardare a Juliette Gréco come a una semplice cantante: lei le canzoni le recitava, le raccontava: non solo con una voce monocroma, dal timbro roco e penetrate, gravida di trasalimenti emotivi e testimonianze di vita vissuta, ma anche con l’espressione del volto spigoloso e degli occhi nervosi, con il gioco mimico delle braccia e delle mani che fendevano l’aria agili e a tratti sembravano quasi cantare per lei. E raccontava, puntualmente, storie di dolore e di tormento, di amori infelici e struggimenti, di uomini e donne a cui sfugge il senso dell’esistenza: da “La chanson des vieux amants”, “Chrysanthèmes” e “Ne me quitte pas” di Jacques Brel a “Les feulles mortes” di Prevert-Kosma. Ma sapeva far vibrare anche la corda umoristica e canaille in “Un petit poisson, un petit oiseau”, “Sous le ciel de Paris”, “Bruxelles”, o ancora in “Paris canailles” e “Jolie mome” di Leo Ferré, salvo poi sussurrare parole d’amore con aria complice e sentimentale in “Parlez-moi d’amour”. Tutte canzoni semplici nell’impianto armonico, nel linguaggio melodico, nelle immagini evocate, eppure allo stesso tempo così profonde, composte su testi che spesso si dovevano a grandi poeti: un repertorio nobile, che bilanciava il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo dei sensi.

“Mi ritrovo ricca di vita, d’amore e di memorie – diceva questa diva dell’antidivismo -. Continuo a fare ciò che posso lungo il mio piccolo cammino, come una capra che si arrampica lungo un pendio roccioso ma fiorito”. In fondo, la grandezza di Juliette Gréco, al pari di tutte le grandi attrici-cantanti del secolo scorso (da Marlene Dietrich a Edith Piaf, a Liza Minnelli, alla nostra Milly) consiste proprio in questo: nell’aver conquistato una vetta, uno spazio veramente suo nel panorama della canzone internazionale nonostante le risorse vocali e i mezzi espressivi tutt’altro che eccezionali, e nell’essere rimasta fedele fino alla fine ai suoi temi e al suo personaggio di “musa dell’esistenzialismo”. Ciò che le ha consentito, forse senza volerlo, di diventare l’esemplificazione di un momento storico, il simbolo di una generazione e di un’epoca.