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Voci nella storia – Samuel Ramey: non solo Rossini

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Samuel Ramey è stato il numero uno fra i bassi baritoni operanti negli ultimi due decenni del Novecento. L’affermazione può sembrare perentoria e va ovviamente motivata. Tuttavia l’ammirazione che questa voce arrivata dal Kansas (Colby, 1942) ha saputo suscitare subito e pressoché unanimemente nel pubblico e nella critica è, in fondo, facilmente spiegabile.
Fin dai primi anni Ottanta, Ramey si impone come un autentico fuoriclasse anzitutto per l’eccezionalità dell’organizzazione tecnico-vocale. Mette in luce uno strumento ampio, tendenzialmente baritonale nel colore e nell’emissione degli acuti, timbrati e squillanti fino al Sol3. Del basso vanta nondimeno l’estensione, la pastosità e la pienezza del registro grave. Oltre alla correttezza assoluta della tecnica di fonazione, a destare sensazione è la sua capacità di dominare il canto di coloratura in maniera precisa e fluente. Un caso senza precedenti fra le voci gravi del Novecento, di fronte al quale la critica si è dovuta attivare per rintracciare genealogie, ascendenze, e individuare una collocazione precisa nell’ambito del belcantismo. Con una visuale tutto sommato restrittiva, in Italia si è voluto fare di Ramey un rossiniano tout court, una sorta di “Horne dei bassi”, sottovalutandone l’apporto in altri repertori. Almeno per un certo periodo. Col tempo, l’interprete saprà invece scrollarsi di dosso un’etichetta ritenuta limitativa, allargando notevolmente e con successo il suo raggio d’azione.

Un fatto però è certo. Il ruolo svolto da Ramey nel quadro della Rossini Renaissance ha un’importanza effettivamente storica. Il paragone con Marilyn Horne, da questo punto di vista, è più che mai calzante. Come la grande vocalista americana ha ripristinato la tipologia dell’autentico contralto rossiniano, così Ramey ha risolto l’annoso problema dei ruoli impervi concepiti dal compositore pesarese per il basso Filippo Galli. Occorre precisare che ai primi dell’Ottocento il termine basso era flessibile (come quello di contralto, del resto) e comprendeva pure le voci baritonaleggianti. Un’analisi della scrittura rossiniana e delle relative tessiture dimostra che Galli era di fatto un basso baritono, con una netta prevalenza, a tratti, dei caratteri baritonali. Quando Rossini aveva la possibilità di comporre per questo cantante, le parti di basso acquistavano un rilievo straordinario sia per l’impegno interpretativo che per il vigore e le doti virtuosistiche richieste. È il caso del Duca d’Ordow di Torvaldo e Dorliska, di Fernando della Gazza ladra, di Assur della Semiramide e di Maometto II. Ma Rossini utilizzerà le capacità di Galli anche come basso comico, introducendo nel canto giocoso agilità e vocalizzi. Si pensi a Mustafà dell’Italiana in Algeri, a Selim del Turco in Italia, al Conte Asdrubale della Pietra del paragone.
Nel Novecento, le carenze tecniche e le scarse cognizioni filologiche delle voci maschili gravi hanno a lungo impedito il recupero dei personaggi ideati per Galli, soprattutto di quelli seri. Con l’avvento di Samuel Ramey, il basso baritono di ceppo rossiniano è invece risorto prodigiosamente. A parte la morbidezza dell’emissione, l’omogeneità timbrica e il vigore dell’accento, gli accostamenti sistematici ai ruoli di Assur, Maometto II (ma pensiamo anche a Lord Sidney del Viaggio a Reims) hanno messo in risalto una facilità e una nitidezza impressionanti nell’affrontare colorature e agilità di vario tipo, nonché la capacità di sostenere nei cantabili ampie arcate con lucente pastosità di suono. Ma con Ramey le formule del canto fiorito acquistano significato e prestanza pure nel repertorio comico. La gradevole figura scenica lo aiuta inoltre a impostare i personaggi in modo aristocratico. Il suo Selim del Turco in Italia è straordinario per pirotecnia ed eleganza, pronto a tutte le inflessioni dell’astuzia e del sentimento. Una creazione che, al pari di quella di Mustafà dell’Italiana in Algeri, rappresenta un ritorno alla concezione del buffo ”’nobile” compromessa nel corso del Novecento da cantanti di gusto caricato, quando non volgare. Che poi questo ripristino di stili e prassi esecutive sia dovuto più all’intuizione e all’istinto che a una consapevole speculazione critica, non scalfisce minimamente la collocazione storica di Ramey nel panorama dell’interpretazione operistica degli ultimi quarant’anni.

Al di là di Rossini, il contributo del grande cantante statunitense deve essere comunque inquadrato nell’ambito più vasto del belcantismo che va dal barocco al primo Ottocento. Non si può non ricordare la potente interpretazione händeliana del Rinaldo, o i capitoli mozartiani delle Nozze di Figaro e Don Giovanni, di cui ha interpretato sia il ruolo protagonistico che quello di Masetto. Sono note, a riguardo, le riserve che a fronte della splendida voce e della maestria del canto, sono state espresse sul Don Giovanni affrontato in teatro e in disco sotto la direzione di Karajan. Si è parlato di un’interpretazione non sempre appagante sul piano della sottigliezza e dell’analiticità del fraseggio, generica nel cogliere i risvolti crudeli e libertini del personaggio. Va detto però che nel corso degli anni il cantante ha ulteriormente maturato la sua creazione, affinando proprio il lato cinico e demoniaco di Don Giovanni. Ramey, anzi, dimostrerà una vera e propria predilezione per le parti di malvagio. Aiutato da un talento scenico e un magnetismo per qualche aspetto sorprendente in rapporto all’atteggiamento schivo, alla semplicità cordiale e dimessa che lo contraddistinguono fuori dal palcoscenico, collezionerà una galleria di interpretazioni memorabili: dai Mefistofele di Boito e Gounod alle quattro parti diaboliche dei Racconti di Hoffmann, da Boris Godunov al potente e fascinoso Nick Shadow di The Rake’s Progress. Esemplare il suo Mefistofele nel Faust di Gounod: protervo in “Le veau d’or”, elegante e beffardo nella serenata del quarto atto, insinuante e demoniaco senza strafare, il Mefistofele di Ramey non rivela i tratti caricati, grotteschi e truculenti di certa tradizione interpretativa post-Scialjapin. Si impone invece come una creazione a tutto tondo e personale: una sorta di reincarnazione francese – demoniaca e tentatrice – del Don Giovanni mozartiano.

Un capitolo a sé è poi costituito dagli approcci di Ramey al melodramma di Verdi. Anche qui certe riserve espresse inizialmente sull’autorevolezza dell’interprete – per ragioni di accento o di fraseggio poco analitico – si sono nel tempo ridimensionate. La verità è che anche in certi ruoli verdiani Ramey tollera pochi confronti. Nei panni di Attila, poi, ha sbaragliato letteralmente la concorrenza. A questo proposito, ho un ricordo personale indelebile di una trionfale produzione veneziana, dove Ramey offriva una interpretazione superba, nel portamento scenico e nel canto, scandita da accenti energici e dalla capacità di colorire un fraseggio nobile, largo, perentorio. Un Attila barbaro, certo, ma profondamente intriso di regalità, ora altera, ora dolorosa e patetica. Un personaggio a tutto tondo: umano e toccante nella sottolineatura di certi tratti malinconici e di introversione psicologica, ma soprattutto pieno di scatto e veemenza. L’esecuzione travolgente della cabaletta “Oltre quel limite”, opportunamente variata nel da capo, non mancava di illuminare i legami del primo Verdi con l’eredità donizettiana.
Di grande evidenza anche il tratteggio di Filippo II del Don Carlo, di cui ricordo le interpretazioni alla Scala e ancora alla Fenice. Ammirevoli, in questo caso, non solo la tecnica e la pienezza del suono, ma anche lo scavo psicologico, l’incisività e lo sbalzo drammatico conferiti alla parola scenica verdiana al di là di un nobile e generico melodizzare. Memorabile in “Ella giammai m’amò” per la linea vocale e l’espressione intimizzate, Ramey riusciva a far percepire tutta la complessità della statura morale e politica di Filippo II.

È chiaro insomma che Samuel Ramey non può essere inquadrato solo come un virtuoso e un belcantista. È un interprete che ha aspirato – giustamente – alla completezza: una natura artistica che ha cercato sempre di sfuggire alle etichette e alla staticità. Comprensibile che abbia sentito la necessità di arricchire via via il repertorio, fino a sconfinare in veri e propri ruoli baritonali, come quello di Scarpia della Tosca pucciniana, o ad affrontare titoli del Novecento come Billy Budd di Britten dove, nella parte di Claggart, Ramey ha aggiunto un altro potente ritratto alla sua straordinaria galleria mefistofelica.
Le felici frequentazioni cameristiche – dal liederismo romantico ai songs americani – confermano infine la composita realtà di una personalità vocale piena e ricca: un interprete capace di cercare un rapporto vitale con la parola nel suo farsi melodia e di realizzare ogni intenzione con piena rispondenza fra il pensiero e il suo risultato.

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