Bella forse non lo è mai stata, almeno a giudicarla per quel suo aspetto esteriore goffo e sgraziato che padri illustri non hanno saputo risparmiarle. Ma, a considerare ciò che nascondeva in sé, per circa un lustro, dal 1992 al 1997, è stata il simbolo di un miracolo, di una rinascita fortemente voluta da chi non poteva immaginare di lasciare una città senza un teatro. Poi, nuovamente, la decadenza, l’abbandono, l’abbrutimento, fra i commenti sprezzanti di chi la vedeva goffa e i rimpianti di chi non sapeva trovarle un futuro. E dunque la Sala Tripcovich di Trieste verrà finalmente abbattuta. Finalmente, avverbio derivato dall’aggettivo finale, ovvero atto finale di una storia, per alcuni; esclamazione a sottolineare la soddisfazione per l’avverarsi di un evento a lungo atteso, per altri.
Come molti, la ricordo quando era semplicemente la stazione delle autocorriere di Trieste, realizzata dagli ingegneri Baldi e Nordio nel 1936, dove arrivavo ancora studente pendolare. Un massiccio e anonimo edificio collocato poco discosto dalla stazione ferroviaria, affiancato da una costruzione semicircolare imbellettata di rosso dove aveva sede la biglietteria. Chi pertanto poteva credere, nel 1992, alle parole di un commosso e ormai anziano barone Raffaello de Banfield, che, alla fine della stagione d’opera e balletto, dal proscenio del “suo” teatro – di cui era stato per anni direttore artistico, assiduamente seduto nel palco di proscenio a ogni recita, affabile intrattenitore nel foyer, dove soleva raccontare sorridendo delle cene con Tennessee Williams, Menotti, Cocteau e altri nomi che appartenevano a un tempo già mitologico – annunciava la prossima chiusura del Verdi per improrogabili restauri e prometteva una sede provvisoria per garantirne l’attività? Eppure, così fu. In soli sei mesi l’ormai dismessa stazione si trasformava nella Sala Tripcovich. Dove per lunghi anni avevano sostato le corriere in arrivo e partenza da Trieste, la sera del 16 dicembre 1992 prendevano posto 932 persone per assistere al concerto inaugurale con l’esecuzione dell’Ouverture Die Weihe Des Hauses op. 124 e la Sinfonia n. 9 op. 125 di Ludwig van Beethoven dirette da Arthur Fagen alla guida dell’orchestra e del Coro del Teatro Verdi. E così sarebbe stato fino al maggio del 1997. La biglietteria, rifattasi il trucco rosso, mantenne la sua funzione e si arricchì di un guardaroba e di un bar; furono realizzati i camerini, il palcoscenico, curata l’acustica e la visibilità dei posti, per consentire alla città e ai suoi ospiti di non restare senza musica.
Stagioni d’opera e balletto regolari, con progetti di grande interesse come La Damnation de Faust, Der Freischütz, la Signorina Julie per ricordarne solo alcuni; e nomi quali Sumi Jo, Rockwell Blake, Sonia Ganassi, Alfonso Antoniozzi, Maria Dragoni, José Cura, Giovanna Casolla. Certo, il barone de Banfield non si trovò da solo in questa impresa, ma ne fu il portabandiera, coprendo la parte maggiore dei fabbisogni finanziari tramite la società Tripcovich di proprietà della sua famiglia, a cui si affiancarono i contributi della Regione e del Comune di Trieste. Poi anche per lui, una vita vissuta nella musica e per la musica, compositore di un certo spessore e di grande raffinatezza, seppure di non spiccata originalità, direttore, fra l’altro, del Festival dei due Mondi di Spoleto, vennero anni di amarezze e decadenza. E, come per la “sua” sala, che alla sua scomparsa nel 2008 prese il nome di de Banfield-Tripcovich, di oblio. Quella città che non è stata capace di salvarla, non è stata neppure capace, per inciso, nell’anniversario della scomparsa del Maestro, di ricordarlo degnamente.
Ciò che oggi amareggia, all’annuncio della decisione definitiva di abbatterla, nel quadro di un più generale progetto di riqualificazione di Piazza della Libertà, per offrire di Trieste un’immagine migliore e più pulita a chi vi giunga, non è che venga abbattuto un vecchio edificio, che bello forse non lo è mai stato, tanto meno quando gli è stato dipinto sulla facciata un drappo rosso e dorato. Quando Notre-Dame bruciava, blasonati intellettuali irridevano agli occhi sgomenti di chi assisteva al rogo: altre cattedrali erano bruciate e poi risorte. Ed è vero. Ma non è questo il punto: Trieste ha riavuto la sede storica del suo Teatro da molti anni ormai, eppure è triste leggere – siano vere, rimaneggiate ovvero sediziose come quelle che circondano Norma – voci che sanno solo rimarcare la bruttezza esteriore di un palazzo, senza celebrarne l’anima, senza ricordarne la storia e l’importanza che per la cultura di un territorio quel palazzo goffo ha avuto. Perché forse sarebbe di maggior sollievo, garbo o – vogliamo dirlo? – più giusto, ripetere per ogni pietra che cade un grazie a chi in quelle mura vi ha lavorato per garantire a Trieste la musica di cui da sempre ha avuto sete, a chi quella sala l’ha realizzata e fatta funzionare, a chi l’ha voluta. Per la città.
È doveroso guardare al futuro, ma nel rispetto del passato. Amareggia, infine, il fatto che non ci si interroghi se si è voluto un progetto diverso per quella sala, mantenendone quella destinazione che le aveva donato una nuova vita e lustro. Perché ogni volta che un teatro muore, muore un pezzetto di civiltà, poiché si perde lo specchio in cui essa può contemplare se stessa e ciò che è stata, per ripensarsi e rinascere. E se si fosse capaci di osservare bene, si dovrebbe sapere scorgere il bello dietro ciò che appare brutto. Finalmente.