Dal 15 al 20 marzo al San Carlo di Napoli torna in scena il Mosè in Egitto di Gioachino Rossini. Il teatro celebra così un doppio anniversario: i duecento anni dalla prima rappresentazione dell’opera, andata in scena proprio al San Carlo il 5 marzo 1818, e i centocinquant’anni dalla morte del compositore, avvenuta a Parigi il 13 novembre 1868.
Per l’occasione viene riproposto l’allestimento proveniente dalla Welsh National Opera per la regia di David Pountney, i costumi di Marie-Jeanne Lecca e le scenografie di Raimund Bauer: una messa in scena che sarà sicuramente una piacevole sorpresa per il pubblico, richiamando la fantasia coloristica di Marc Chagall. La direzione musicale è affidata a Stefano Montanari. I due ruoli antagonistici maschili sono interpretati dai bassi Alex Esposito (Faraone) e Giorgio Giuseppini (Mosè). I due “amorosi” Osiride (tenore) ed Elcìa (soprano) sono impersonati rispettivamente da Enea Scala e Carmela Remigio. Il ruolo di Amaltea (soprano) è cantato da Christine Rice, mentre Mambre (tenore) è sostenuto da Alisdair Kent, Aronne (tenore) da Marco Ciapponi e Amenofi (soprano) da Lucia Cirillo.
Mosè in Egitto è la prima versione dell’opera che sarà poi sottoposta a quel rifacimento francese, Moïse et Pharaon, ou Le Passage de la mer Rouge, datato 1827 e destinato a diventare uno dei titoli più amati del compositore. Quarto lavoro concepito per Napoli, il dramma biblico offre a Rossini l’occasione per sperimentare nuove strade altrimenti impossibili in un lavoro convenzionale. Del resto, il musicista si dimostra perfettamente consapevole della sfida, ma anche del forte conservatorismo del pubblico napoletano: “Io ho quasi terminato l’oratorio e va benone. È di un genere però elevatissimo, e non so se questi mangia macheroni lo capiranno. Io però scrivo per la mia gloria e non curo il resto”.
Il ventiseienne Rossini affronta con decisione un genere impegnativo e ambizioso, mostrando una particolare predilezione per i momenti in cui può dare sfogo all’inventiva orchestrale, laddove nel libretto dominano il divino e il soprannaturale. Il modello è Haydn, di cui il pesarese aveva studiato gli oratori, insieme a Mozart, Beethoven e alla scuola tedesca contemporanea: compositori spesso accolti con riluttanza dal pubblico italiano di allora.
L’azione tragico-sacra aggira il divieto di rappresentazioni di argomento profano nel periodo della Quaresima. Il libretto di Andrea Leone Tottola non è tratto direttamente dalla Bibbia, ma dalla tragedia Osiride di Francesco Ringhieri, pubblicata a Padova nel 1760. Accanto alla narrazione sacra, viene inserita la storia d’amore tra la giovane ebrea Elcìa e Osiride, il figlio di Faraone. Un modo per mantenere un’atmosfera “melodrammatica” e affidare parti adeguate alla primadonna Isabella Colbran (Elcìa) e al tenore Andrea Nozzari (Osiride).
Pagato il tributo al pubblico, il compositore non sembra troppo interessato ai pezzi solistici, che sono pochi e spesso affidati a collaboratori esterni. Lo stesso ruolo di Mosè è dotato di un’aria trascurabile e si esprime per lo più attraverso curatissimi recitativi: Rossini ritaglia la parte sulle qualità del basso Michele Benedetti, considerato grande attore oltre che cantante capace. Tra i brani più convenzionali non mancano momenti di grande bellezza come il quintetto “Mi manca la voce”, stato tipicamente rossiniano di sgomento e di afasia al centro del secondo atto
Il compositore dà il massimo risalto musicale agli eventi biblici, tutti a forte partecipazione corale: il primo atto è delimitato da due momenti di grande impatto quali la Scena delle Tenebre e la Piaga del Fuoco. Rossini rinuncia addirittura alla sinfonia d’apertura pur di entrare immediatamente nel cuore del dramma. La Scena delle tenebre è costruita su un motivo sinuoso e ossessivo, che dà l’impressione di claustrofobica staticità: una pagina severa che sarà ammirata dallo stesso Wagner. L’impasse e il clima desolante vengono risolti dall’Invocazione di Mosè, un ispirato recitativo sostenuto sapientemente da poderosi interventi dell’orchestra che esaltano il testo. Il crescendo successivo non è la formula usata tipicamente da Rossini, ma un vero e proprio poema sonoro, che fa percepire fisicamente il ritorno della luce e il grido liberatorio del coro.
Al polo opposto, nel Finale d’atto, il deflagrare della piaga del fuoco contrappone musicalmente la sicurezza del popolo ebraico e il terrore del popolo egizio. Un tema cupo e minaccioso si contrappone a un altro franto e disperato in una scena rapida, essenziale, delineata al cesello e di una sobria perfezione classica.
Infine, il terzo atto del Mosé in Egitto nasconde la chiave di volta dell’opera: Rossini vuole mettere in scena il passaggio del mar Rosso, altrimenti assente nella tragedia di riferimento. L’atto si presenta brevissimo, esclusivamente in recitativo e declamato, con un solo “pezzo chiuso”, la sublime preghiera “Dal tuo stellato soglio”.
Un piccolo “mistero” avvolge questo atto così “sperimentale”: non sappiamo che aspetto avesse nella première del 1818 perché il compositore e il librettista decisero di modificarlo per la ripresa napoletana dell’anno dopo, inserendo in questa occasione la preghiera. Nella prima parte, in minore, Mosé, Aronne e Elcìa intonano un’accorata invocazione (da notare la finezza della strumentazione, diversa per ogni personaggio), ripetuta sommessamente dal coro; segue la ripresa in maggiore della melodia all’unisono con un potente effetto euforizzante. Non è un caso se questo pezzo ha fatto esclamare a un personaggio di Balzac: “Ho assistito alla liberazione dell’Italia”. Nasceva l’opera corale, espressione della nascente volontà di unificazione nazionale e di libertà degli italiani.
Il passaggio e la chiusura del mar Rosso sono descritti da un’orchestra scatenata e ormai “tedesca”. Alla fine, inaspettatamente, il fragore tace e, con una geniale intuizione puramente strumentale, l’orchestra intona una melodia di radiosa serenità: il popolo ebraico è in salvo e in cammino verso la Terra promessa.
Ulteriori informazioni: Teatro San Carlo
Photo credit: Richard Hubert Smith