Cento anni fa (il 13 giugno del 1917), nasceva a Roma Rodolfo Celletti, musicologo, critico, scrittore e maestro di canto. A tredici anni dalla scomparsa, la lezione di questo grande esperto di voci e storico del nostro melodramma rimane attuale e il suo contributo al rinnovamento stilistico degli interpreti e del repertorio operistico ha dato frutti di cui ora tutti noi possiamo ancora godere.
Quando Celletti incominciò a scrivere la cultura operistica d’impronta verista, il canto primordiale e forzato, la manomissione dei testi originali erano prassi consolidata e diffusa. Con intelligenza e arguzia e con una scrittura brillante e accattivante, precisa e al tempo stesso a tratti ironica, il Nostro demoliva falsi miti attirandosi gli strali di melomani e loggionisti. Il suo apporto alla riscoperta, dopo il secondo dopoguerra, del belcanto dal barocco all’apogeo rossiniano, ristabilendo le coordinate tecnico-stilistiche per la musica operistica, fu pionieristico.
Oggi per noi la riesumazione di lavori dimenticati o un’esecuzione filologicamente corretta di un lavoro di repertorio sono dati acquisiti e irrinunciabili. Non era così quando Celletti incominciò a scrivere discoprendo una civiltà del canto dimenticata e che sembrava perduta. Senza le sue intuizioni e i suoi importanti volumi, saggi, scritti su periodici e riviste, contributi per dizionari ed enciclopedie, non sarebbe stata possibile quella rinnovata attenzione al belcanto che avrebbe dato vita alla Rossini Renaissance. Un riconoscimento che lo stesso Alberto Zedda con la sua onestà intellettuale gli tributava, assieme all’individuazione in Maria Callas di colei che aveva dato nuova classica dignità a tanto repertorio frainteso o negletto. Ma a Celletti si deve anche la crescente attenzione al primo Verdi, a tutto Bellini e al Donizetti drammatico.
Il suo luogo dell’anima era la Ciociaria e la franchezza comunicativa che alimentava la sua oculatezza critica aveva contribuito a creargli intorno un alone di burbera alterigia. In realtà, chi lo aveva frequentato non poteva che elogiarne la serena cordialità, la personalità vivace, curiosa e attenta. È quanto mi capitò di constatare accompagnando nella sua casa milanese, piena di libri e dischi, una giovane cantante che gli fece ascoltare alcune pagine del Campiello di Wolf-Ferrari. Fu prodigo di consigli, gentilissimo e affabile. Amava le nuove generazioni e voleva preservarle dai cattivi modelli e dai pericoli di eventuali agenti o direttori artistici spregiudicati.
Durante la sua direzione del Festival della Valle d’Itria (1980-1993), a Martina Franca, tanto si spese per forgiare nuovi talenti impegnati in opere di raro ascolto o nel repertorio proposto nella revisione critica. Fu un profeta musicale che contribuì a realizzare ciò che con acume presagiva.