Pavarotti dieci anni dopo: una voce nella storia
Prima di tutto, diamo a Cesare quel che è di Cesare. Il 6 settembre 2007, con Luciano Pavarotti, se ne andò uno dei maggiori tenori del Novecento, non solo un abile showman. Il grande pubblico che lo aveva conosciuto ascoltando i concertoni con Placido Domingo e José Carreras, o i “duetti” con Laura Pausini, Giorgia e Renato Zero, non poteva avere un’idea precisa della grandezza del cantante. E temo non possa farsela nemmeno oggi, con le celebrazioni annunciate per il decennale della morte: le rievocazioni e gli ascolti che passano sui media, purtroppo, riguardano quasi sempre il periodo del declino.
Il fenomeno Pavarotti non va visto soltanto come l’affermazione di una natura vocale privilegiata, sostenuta dalla grancassa pubblicitaria e dai meccanismi dello star system. Agli inizi di carriera, il cantante si è imposto come un modello di preparazione e addestramento tecnico accurati, gestiti con oculatezza e nel rispetto della propria natura artistica. Il Pavarotti che negli anni Sessanta e Settanta collaborava con Karajan e Kleiber grande interprete lo è stato davvero. Almeno fino alla fine degli Ottanta. Successivamente, la fama senza pari lo ha trasformato in un tenore nazional-popolare, dedito a operazioni commerciali disinvolte, collocandolo in una situazione psicologica analoga a quella di Beniamino Gigli fra le due guerre.
Nato a Modena il 12 ottobre 1935, Pavarotti debutta nel 1961. Dopo aver vinto il Concorso internazionale di Reggio Emilia, esordisce nella stessa città con La Bohème, opera che, insieme a Rigoletto, interpreta anche alla Staatsoper di Vienna nel 1963, quindi al Covent Garden di Londra, al San Carlo di Napoli nel 1964 e alla Scala nel 1965. Ad aumentare la sua fama internazionale sarà soprattutto La figlia del reggimento affrontata al Covent Garden nel 1966 insieme a Joan Sutherland: i suoni limpidi e luminosi esibiti nei nove do dell’aria di Tonio “Ah, mes amis” destano sensazione. Nel 1967 canta all’Opera di San Francisco, dove negli anni Settanta debutta anche Un ballo in maschera, Luisa Miller e Il trovatore. Altrettanto importanti le collaborazioni con il Metropolitan di New York, teatro in cui si esibisce dal 1968, e con la Scala, dove esordisce nel 1965-66, oltre che con Rigoletto anche con il Tebaldo dei Capuleti e Montecchi, e dove tornerà fino alla stagione 1992-93. Sarebbe lungo, poi, l’elenco dei teatri internazionali in cui Pavarotti metterà in repertorio con crescente successo numerose altre opere, tra cui I puritani, L’elisir d’amore, La favorita, Lucia di Lammermoor, Tosca, Madama Butterfly, La Gioconda.
La voce chiara, dolce, giovanile, omogenea in tutta l’estensione, squillante negli acuti e nei sopracuti, è stata il primo biglietto da visita di Pavarotti. Un timbro congeniale ai ruoli di amoroso, argentino e lucente nel registro alto grazie anche a una tecnica di emissione salda e sapiente.
Poco incline alle inflessioni sensuali, cauto nelle incursioni nell’operismo eroico, l’interprete sapeva far vibrare soprattutto la corda del lirismo tenero e affettuoso. Non solo. Lo spavaldo Duca di Mantova del Rigoletto e il Riccardo del Ballo in maschera, con le sue connotazioni brillanti, oltre che accorate, sono due ruoli fondamentali della carriera di Pavarotti. Ancor più congeniale è stato il repertorio di Bellini e Donizetti, dove il cantante – da autentico tenore di grazia romantico – ha avuto modo di mettere in luce i pregi del timbro e dell’accento, la perfezione del legato e, naturalmente, la capacità di sostenere con disinvoltura le tessiture più alte. Un capitolo importante è anche quello pucciniano: il suo Rodolfo in Bohème si imponeva per un fraseggio fresco e spontaneo, straordinariamente aderente al carattere del personaggio. In quest’ambito di repertorio si circoscrive l’effettiva grandezza del cantante, al quale mai nessuno potrà negare un posto nella storia dell’interpretazione operistica del Novecento.
Showman di grande talento, Pavarotti aveva inoltre saputo trovare, a dispetto della mole, soluzioni sceniche che, pur non eliminando la staticità della recitazione, non mancavano di spigliatezza e avevano contribuito ad accattivargli la simpatia del pubblico internazionale, dandogli una popolarità forse superiore a quella ottenuta nella prima metà del Novecento da Enrico Caruso e Beniamino Gigli.
Più controverso il discorso sulle apparizioni degli ultimi dieci-quindici anni, quando la carriera – costellata di apparizioni artisticamente discutibili – aveva già intrapreso la china discendente. Si era di fronte a un tenore nazional-popolare, sempre meno incline all’analisi e all’approfondimento e sempre più disponibile a operazioni commerciali. I concerti con Domingo e Carreras e i minestroni classico-leggeri propinati regolarmente al “Pavarotti & Friends” restano gli esempi più eclatanti. Costretto a centellinare le apparizioni operistiche in teatro, Pavarotti non viveva più la dimensione concertistica come momento culturale e di fantasia creativa. Per lui il recital era ormai sinonimo di festa popolare, evento di massa, parate di arie e canzonette famose, dove la demagogia era di rito, e una stecca o una minima defaillance finivano per assumere un clamore del tutto inusuale.
Il vero grande Pavarotti, in definitiva, è un altro: è il cantante dalla voce carezzevole e squillante che, soprattutto nel repertorio protoromantico e romantico, tra gli anni Sessanta e Settanta ha avuto il merito, insieme con Corelli, Bergonzi e Kraus, di aver portato il canto tenorile ai più alti livelli di tecnica e stile. È quello, solo quello, il Pavarotti destinato a entrare nella storia.
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