Tra le opere che più si prestano a interpretazioni psicanalitiche, Turandot occupa un posto tutto speciale. Anzitutto perché è una favola. E le favole affondano le radici nell’antichità, si confondono con i miti e le leggende, di cui sono una continuazione, racchiudono un’arcaica saggezza esoterica. La psicologia del profondo se ne interessa da sempre perché in quelle narrazioni non c’è solo l’infanzia dell’umanità, ci sono anche le sue paure, le sue ossessioni, i suoi desideri oscuri.
Da Mosco Carner, musicologo con interessi freudiani, a Franco Fornari, psicanalista con velleità musicologiche, ci hanno provato in molti a scandagliare la mente e l’inconscio sia di Turandot che di Giacomo Puccini, approdando a tesi spesso contrastanti.
Per un alfiere della tradizione come Franco Zeffirelli, invece, tutte queste implicazioni simboliche e intellettualistiche alimentate dal dibattito culturale novecentesco non sono affatto uno stimolo e tanto meno un problema: semplicemente non esistono. Per lui il discorso è molto più semplice. Turandot – come ha ripetuto in diverse occasioni – è un personaggio non solo detestabile, ma estraneo a Puccini, il quale cerca inutilmente di piegarlo alla sua fede nell’amore. La vera protagonista è Liù, cui è riservata la musica più bella. È lei, attraverso il suo sacrificio, a trionfare nel finale sbaragliando ogni concezione “femminista” legata alla figura della donna imperatrice e divoratrice di uomini.
Non stupisce che, coerentemente con questa concezione, nel 2010 Zeffirelli sia arrivato a imporre all’Arena di Verona il taglio del duetto finale musicato da Franco Alfano, col risultato di un’esecuzione in cui si passava direttamente dalla morte di Liù al coro celebrativo in cui viene ripreso il tema imperiale di Puccini. A chi gli obiettava che l’happy end risultasse in questo modo posticcio e spiazzante, il vegliardo rispondeva con candore: «perché devo mettere in scena otto minuti di un “duettaccio” di brutta musica scritta da Alfano per capire che la donna carogna ha ceduto grazie all’amore di un’altra donna? Puccini ha scritto tutto fino a quando Liù, prima di uccidersi, ammonisce Turandot prevedendo che anche lei, principessa di gelo, cederà al calore dell’amore».
Ora, è vero che Zeffirelli ci ha abituati nelle sue ultime interviste a dichiarazioni stravaganti, in qualche caso perfino sconcertanti, ma in genere quando disserta di melodramma centra quasi sempre il bersaglio. Certo il taglio del duetto è un arbitrio discutibile, ma non molto diverso, nelle motivazioni, dalla scelta di certi illustri direttori di tradizione che in Traviata sopprimono la cabaletta di Germont padre, intanto perché così faceva Toscanini, e poi perché secondo loro si tratta di una pagina brutta e, in fondo, di un errore musicale e drammaturgico di Verdi.
Inutile scandalizzarsi, quindi, anche perché nella sostanza Zeffirelli ha ragione. Puccini detestava il personaggio di Turandot: una figura frigida e cerebrale del tutto antitetica rispetto alle eroine delle sue opere precedenti. È la donna “serpente”, la vampira sanguinaria che popola molti drammi in prosa e in musica del primo Novecento. Un personaggio ripugnante per la sensibilità e la fantasia del compositore, che infatti non riuscirà a portarne a termine la trasformazione da belva crudele a donna innamorata.
Pur iniziando il duetto due anni prima che si manifestassero i sintomi della malattia, Puccini farà riscrivere più volte il testo ai librettisti e finirà per mettere tutto in cassetto fino alla morte: impossibile per lui dare forma drammatica e musicale allo “sgelamento” di Turandot. L’amore come forza catartica, positiva e liberatrice è inconcepibile per Puccini: l’amore vero, profondo vissuto dalle sue eroine è una colpa tragica da punire con la morte, puntualmente preceduta da sofferenze fisiche o spirituali. È uno schema drammatico che si ripete in tutte le sue opere, fino al suicidio di Liù.
Il duetto e il conseguente lieto fine che in Turandot dovrebbero rovesciare questo tragico meccanismo sono pertanto destinati al fallimento e i finali di Alfano o Berio non possono che risultare corpi estranei, in grado di colmare solo formalmente la lacuna.
Naturalmente per Zeffirelli tutto questo non è un problema. Turandot è una favola e come tale può accettare anche un finale precipitoso e incongruente dal punto di vista psicologico. Nelle fiabe un bacio è più che sufficiente per motivare lo “sgelamento” di una principessa carogna.
Precisato che nell’attuale ripresa dell’allestimento a Verona il finale di Alfano è stato ripristinato, questa concezione prettamente favolistica spiega pure l’interesse esclusivo di Zeffirelli per l’elemento decorativo e l’orientalismo luccicante e sontuoso.
Si tratta indubbiamente di una visione conservatrice, riduttiva, e tuttavia legittima e plausibile. I problemi di credibilità, nella traduzione scenica, nascono semmai quando la moltiplicazione di ori, argenti, guglie, pagode, stendardi, costumi (firmati dal premio Oscar Emi Wada) finiscono per sfociare in una dimensione disneyana. O quando la cifra kolossal condiziona la stessa regia, penalizzando i movimenti di coristi, comparse, acrobati e ballerine, e congestionando in particolare il primo atto, tutto giocato al proscenio e affollato da un popolo oppresso che guarda da lontano i fasti della corte.
Va da sé che nel secondo atto, quando le mura di Pechino che fanno da sipario si aprono sulla sfavillante reggia imperiale (una combinazione tra i precedenti allestimenti zeffirelliani della Scala e del Metropolitan), il colpo di teatro è garantito e l’applauso a scena aperta scatta puntualmente.
Sul podio si segnala la presenza del veronese Andrea Battistoni, che pur giocando in casa non supera del tutto le insidie del palcoscenico areniano. Come nell’edizione da lui diretta nel 2012, si nota infatti qualche sparso scollamento con coro e cantanti. Niente di compromettente, tuttavia. La lettura si conferma nel complesso efficace e incisiva. In più, rispetto a quattro anni fa, Battistoni approfondisce il tessuto iridescente e le suggestioni impressionistiche, conciliandole con certe asprezze novecentesche della partitura.
La protagonista è Oksana Dyka, che per quanto specializzata in ruoli da lirico-spinto non si dimostra del tutto a suo agio nell’affrontare la tessitura di Turandot. Il soprano ucraino ha indubbiamente un timbro freddo che ben si addice al ruolo, fraseggia a tratti con impeto, ma l’emissione risulta poco corposa nei gravi mentre negli acuti è tendenzialmente fissa e metallica, qualche volta pure crescente di intonazione. La dizione, poi, non è il massimo della chiarezza.
Il Calaf di Carlo Ventre non ha dalla sua il timbro seducente né lo squillo imperioso negli acuti, tuttavia ha una tenuta professionale, canta con sostanziale correttezza e, quando richiesto, sa ammorbidire i suoni e sfumare il fraseggio.
Elena Rossi, la più acclamata dal pubblico, delinea un Liù dalla vocalità non molto levigata e dalla caratura drammatica a tratti forse eccessiva. Il personaggio risulta comunque credibile grazie a un fraseggio espressivo, adeguatamente trepidante e patetico.
Conferma positiva per il Timur di Carlo Cigni; funzionali le prove di Federico Longhi, Francesco Pittari e Giorgio Trucco nei panni di Ping, Pong, Pang.
Successo caldissimo per tutti. Repliche fino al 25 agosto.
Arena di Verona – Festival 2016
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Oksana Dyka
Imperatore Altoum Cristiano Olivieri
Timur Carlo Cigni
Calaf Carlo Ventre
Liù Elena Rossi
Ping Federico Longhi
Pang Francesco Pittari
Pong Giorgio Trucco
Mandarino Paolo Battaglia
Il Principe di Persia Michele Salaorni
Orchestra, Coro, Corpo di ballo e Tecnici dell’Arena di Verona
Coro di voci bianche A.d’A.MUS diretto da Marco Tonini
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Emi Wada
Coordinatore del Corpo di ballo Gaetano Petrosino
Direttore allestimenti scenici Giuseppe De Filippi Venezia
Verona, 23 luglio 2016