Ritorna il fortunatissimo allestimento de La Bohème di Ettore Scola, inaugurato nel 2014, l’anno relativamente più calmo e fortunato delle travagliate vicende del Festival Puccini, la stagione in cui, con una meravigliosa nuova produzione di Turandot, la straordinaria esperienza del Trittico nella sala Enrico Caruso, e soprattutto con questa Bohème, si ebbe l’effimera impressione che forse il Festival poteva sperare di ritornare agli antichi sfarzi (c’era anche una mediocre Madama Butterfly, ma non tutte le ciambelle riescono col buco). Com’ebbi modo di scrivere allora, l’elemento che subito colpisce in questa produzione di Scola (ripresa da Marco Scola di Mambro il nipote del regista che due anni fa era stato assistente del nonno), anche alla sola vista della scenografia del primo atto ancor prima che abbia inizio l’opera, è l’ovvio riferimento alle varie fortunatissime messinscene che nel corso dei decenni Franco Zeffirelli ha allestito in alcuni dei più importanti teatri internazionali. Scola, scomparso nel gennaio di quest’anno, era qui (dopo un Così fan tutte di diversi anni fa a Torino) soltanto alla sua seconda esperienza operistica e come spiegò nelle note di regia preferì affidarsi alla tradizione, resistendo alle forti tentazioni iniziali di “rivoluzionare impianti e concezioni adottati in altre edizioni rappresentate in tutti i teatri del mondo.” Il risultato fu un allestimento sfarzoso senza eccessi o cadute di gusto, ricco di dettagli, di comparse che molto cinematograficamente si muovono fra i protagonisti e ne fanno da complemento, di scene di massa ben coreografate, e soprattutto di un’attenzione alla recitazione che non si basava solo sui grandi gesti tipici di una rappresentazione teatrale, ma su un’attenzione (anche questa tutta cinematografica) alle espressioni del volto, talora persino troppo sottili per esser notate a distanza e visibili solo attraverso l’uso di un cannocchiale, e che si apprezzano meglio nelle ripetute trasmissioni televisive. Le opulente scene di Luciano Ricceri e i curatissimi ed eleganti costumi di Cristina Da Rold si adattavano perfettamente alla concezione del regista. Ribadiamo in conclusione che si tratta di una produzione di sicura presa sul pubblico, che infatti l’ha accolta con grande entusiasmo anche in questa ripresa.
Sul versante musicale Fabio Mastrangelo è parso prestare molta attenzione al fraseggio vocale e orchestrale, portando alla luce dettagli che molti altri direttori tendono a trascurare, e per ottenere questo, si è concesso ampia libertà di azione, forse anche troppa. Non ignora le indicazioni dinamiche, ma le dilata e le accentua, particolarmente quando vi sono contrasti da mettere in risalto. Il tutto è guidato da un’indubbia creatività, intenzioni chiare e un gusto così singolare che persino certi eccessi possono esser giustificati. Non è una visione di Bohème che possa piacere a tutti, soprattutto a chi associa la meticolosità con la lentezza, e posso comprendere coloro che la ritengono eccessivamente flemmatica.
I ruoli secondari della compagnia di canto comprendevano nomi di sicura professionalità ed esperienza quali Claudio Ottino (Benoit, e vorrei menzionare lo stupendo portamento su “e son piene di doglie”) e Angelo Nardinocchi (Alcindoro), e completavano il cast Francesco Napoleoni (Parpignol), Stefano Fagioli (Sergente dei doganieri) e Alessandro Biagiotti (un doganiere). Luci ed ombre fra le parti principali, in cui primeggiavano gli interpreti maschili. Non posso dire che l’ottima prova Amadi Lagha nei panni di Rodolfo fosse esattamente una sorpresa, dal momento che l’avevo ascoltato e apprezzato in un concorso di canto poco più di un anno fa; mi ha fatto quindi molto piacere ritrovare il giovane tenore francese su un palcoscenico tutto sommato ancora importante. Lagha, che sostituiva Leonardo Caimi, ha messo in luce un bel timbro di tenore lirico pieno schietto, caldo, tipicamente mediterraneo, morbidamente emesso, generoso nel senso positivo del termine, in quanto incline a prodursi in mezze voci, smorzati (bello quello sul Si bemolle di “chi son?” in “Che gelida manina” cantata in tono), senza per questo intimidirsi nello sfoggio di acuti spavaldi. L’interprete è buon fraseggiatore, coinvolto, attento e reattivo, un attore nato con una personalità talora debordante: un Rodolfo giovane, fisicamente adattissimo al ruolo. Altrettanto convincente il Marcello di Francesco Verna, baritono dal timbro gradevolissimo, non particolarmente scuro (e quindi liricamente appropriato al ruolo), ma ricchissimo di armonici in tutta la notevole estensione. Avevo apprezzato la sua partecipazione emotiva in Sharpless l’anno scorso all’Opera di Firenze, e qui son rimasto colpito dalla sua disinvoltura scenica e soprattutto dalla volubilità e dal senso dell’umorismo conferiti al personaggio. Uno dei maggiori complimenti per uno Schaunard è quello di ritenerlo in grado di salire lo scalino ed esser promosso alla parte di Marcello, e Raffaelle Raffio (Schaunard) con la sua voce ben compatta e sicura in acuto potrebbe comodamente passare dalla carriera di musicista a quella di pittore. Davide Mura (Colline) al contrario è rimasto in sordina per gran parte dell’opera e non è riuscito a sfruttare il breve ma importante momento sotto le luci della ribalta, con un Mi bemolle acuto leggermente calante nella “Vecchia zimarra”, che comunque il pubblico ha accolto con grandi applausi. Daniela Cappiello è la classica Musetta della tradizione italiana (è interessante notare che all’estero, o almeno negli Stati Uniti, spesso questo ruolo viene affidato a voci più scure, addirittura mediosopranili), e dunque un soprano leggero, quasi soubrette; ma il timbro è gradevole, non asprigno, e tecnicamente il soprano pare sapere il fatto suo, dimostrandolo fra l’altro con un bel diminuendo sul Si naturale del suo valzer del secondo atto. Fiorenza Cedolins è l’eccelsa artista che tutti conosciamo e uno dei soprani più influenti degli ultimi due decenni. Confesso di non averla mai ascoltata dal vivo prima d’ora, in quanto non ho mai avuto modo di sentirla cantare al Met di New York (il “mio” teatro per più di vent’anni) né di incrociarla sui palcoscenici italiani in questi ultimissimi anni. Mi duole dunque fare la sua “conoscenza” in una fase della sua carriera purtroppo declinante: la grande interprete è ancora presente, con un fraseggio da manuale ed in grado di esprimere tutta la vasta gamma dei sentimenti di Mimì. Raramente ho ascoltato un “se venissi con voi” che esprimesse al contempo l’eccitazione e il pudore di chi forse crede di aver osato troppo, per non parlare del terzo atto in cui l’angoscia di chi scopre, o meglio viene a termini con il fatto di aver una malattia terminale era espresso in maniera devastante; la morte poi è un saggio di come commuovere il pubblico solo con gli accenti senza indulgere in effetti di facile presa. Purtroppo lo strumento della grande artista è ormai in declino; è inutile indulgere in una analisi clinica dei “mali” che l’affliggono: basti accennare all’aridità di un timbro un tempo rigoglioso, all’oscillazione del registro acuto, e all’incidente di percorso sul Do all’unisono con il tenore al termine del primo atto. È una mia enorme perdita non averla potuta cogliere nel momento del suo massimo fulgore.
Gran Teatro Giacomo Puccini – 62° Festival Puccini 2016
LA BOHÈME
Scene liriche in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo Amadi Lagha
Marcello Francesco Verna
Schaunard Raffaele Raffio
Colline Davide Mura
Benoit Claudio Ottino
Alcindoro Angelo Nardinocchi
Mimì Fiorenza Cedolins
Musetta Daniela Cappiello
Sergente dei doganieri Stefano Fagioli
Un doganiere Alessandro Biagiotti
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Coro delle voci bianche del Festival Puccini diretto da Viviana Apicella
Direttore Fabio Mastrangelo
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Ettore Scola ripresa da Marco Scola di Mambro
Scene Luciano Ricceri
Costumi Cristina Da Rold
Light Designer Valerio Alfieri
Torre del Lago, 16 luglio 2016