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Venezia, Teatro La Fenice – Mirandolina

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Nella storia del teatro occidentale, le donne più libere e padrone di loro stesse sono forse quelle che popolano le commedie di Carlo Goldoni. Molto prima di Carmen, di Nora di Casa di bambola e dei monologhi femministi del Novecento, le donne goldoniane esprimono e realizzano il loro desiderio di emancipazione nei sentimenti, nel matrimonio, nella vita sociale. Non hanno bisogno di evadere, di sognare luoghi o situazioni eccezionali. Non ricorrono ai sotterfugi e alle astuzie delle protagoniste delle commedie e dei drammi giocosi ottocenteschi. Sono perfettamente inserite nel tempo quotidiano e nella realtà sociale. Se si concedono agli uomini è per libera scelta e per il proprio piacere.

Così è anche Mirandolina, protagonista de La locandiera (1753), che come altri personaggi goldoniani gioca a carte scoperte, dichiara esplicitamente il suo programma di vita e il suo comportamento. Ha una aggressività resa ancora più penetrante dalla consapevolezza della condizione storica in cui vive. È una figura sfaccettata, ricca di sfumature, imprendibile.
In lei convivono narcisismo e smania di dominio. A muoverla non è solo una rivalsa sessista, ma soprattutto classista e sociale. Il suo trionfo sui patrizi che la corteggiano è la vittoria della servetta della commedia dell’arte divenuta proprietaria, è la rivincita della cultura e della pratica di vita borghese sui pregiudizi nobiliari dell’Ancien Regime.

Non solo. Mirandolina ha un carattere dispotico. Non è affatto la creatura intelligente, cortese, insinuante che dopo aver respinto un marchese, un conte e un cavaliere, accetta l’umile cameriere della locanda come docile marito. È piuttosto l’immagine scenica di una volontà di potere costruita ad arte nella vita quotidiana. Gli uomini, i suoi antagonisti, sono esseri deboli, come sono deboli le donne di Don Giovanni: bastano poche belle parole per farli cadere. E in effetti è un Don Giovanni in gonnella che conquista senza amore. Ha il gusto della sfida e della prova.

Certo la sfida che Mirandolina lancia contro l’altro sesso non nasce da un antagonismo radicale, non intende abbattere l’amore e tutte le convenzioni che l’uomo ha costruito per dare un senso alla vita e alla morte. Diversamente da Don Giovanni, non ha contraddizioni vitali, né tentazioni metafisiche. In compenso, resta una donna libera, pragmatica, e alla fine sarà lei a vincere. Solo un genio teatrale nato in una città come Venezia, aperta, libera e padrona di se stessa per un millennio, poteva concepirla.

Non stupisce che un personaggio così intrigante e moderno abbia stimolato la fantasia di numerosi compositori. Tra le trasposizioni operistiche più note della Locandiera c’è quella a suo tempo fortunatissima di Antonio Salieri (1773) e quella di Giovanni Simone Mayr (1800), ma ne esistono a decine, di autori minori oggi dimenticati, disseminate tra la fine del Settecento e tutto il Novecento.
Alla Fenice di Venezia si è voluto mettere in scena la versione di Bohuslav Martinů, intitolata Mirandolina e già ripresa negli ultimi lustri in altri teatri italiani ed europei.

Poco noto al grande pubblico, Martinů (1890-1959) è uno dei più interessanti compositori cechi del XX secolo. Conosciuto anche per le sue opere sinfoniche e cameristiche, scrive 13 lavori per il teatro musicale, più qualche balletto. Si forma inizialmente sulla scia della scuola nazionale del suo Paese per poi approdare – dopo il trasferimento prima a Parigi e poi negli Stati Uniti – a un eclettismo influenzato dal neoclassicismo francese, da Stravinskij, dal jazz e dalla musica popolare americana.
Tutti questi elementi confluiscono nei tre atti di Mirandolina, allestita per la prima volta al Teatro Smetana di Praga nel 1959. In quest’opera Martinů mostra la sua sensibilità per un tipo di rappresentazione scenica dalla vivacità popolaresca, già rivelata anni prima nel Teatro fuori porta (1936), un lavoro ispirato alla commedia dell’arte.

Trionfo assoluto di eclettismo compositivo, la partitura di Mirandolina ha una base armonica tonale, per quanto screziata dagli influssi modali del folclore ceco. Se il gusto armonico si rivela libero da schematismi, la melodia scorre frammentaria e asimmetrica, il ritmo teso e irregolare. Le influenze e i rimandi si sprecano, vanno da Mendelssohn a Stravinskij, da Rossini a Puccini, dagli stilemi settecenteschi al Singspiel, al jazz, ma risultano nell’insieme amalgamati con coerenza e ironia.
I problemi e i limiti di Mirandolina sono più che altro di tipo linguistico e riguardano il libero adattamento del testo di Goldoni, inizialmente tagliato e condensato dallo stesso Martinů spesso a discapito del fragile equilibrio fra versi e musica. A limitare i danni sarà l’intervento di Antonio Aniante, scrittore e commediografo siciliano conosciuto a Parigi, che in molti passaggi darà al testo del libretto le cadenze e le inflessioni linguistiche più appropriate, senza tuttavia risolvere alcuni grumi sintattici e ritmici.
Va da sé che la Mirandolina di Martinů non conserva praticamente nulla dello spessore e della complessità del capolavoro di Goldoni, con tutte le sue implicazioni psicologiche e socio-culturali. Ciò non toglie che questa rarità operistica, grazie anche a una certa inclinazione ludica del suo autore, sia nell’insieme piacevole e che la Fenice abbia fatto bene a ripescarla.

Considerate la leggerezza e la semplificazione dell’adattamento, va dato atto a Gianmaria Aliverta, giovane regista dell’allestimento veneziano, di aver scelto una chiave rappresentativa pertinente e credibile. La vicenda risulta infatti attualizzata nell’ottica della commedia all’italiana, con riferimento particolare alle vituperate pellicole dei fratelli Vanzina, dove la pochade si intreccia con una satira di costume superficiale e il trash scatologico con la banalità del linguaggio televisivo. Nello spettacolo rivivono così le atmosfere di certe vacanze all’italiana, riecheggiano i caratteri e i cliché dell’eterna contrapposizione fra Nord e Sud e tra romani e milanesi.
La locanda settecentesca di Mirandolina si trasforma in un hotel del nostro tempo, con annesso centro benessere dove i clienti si rilassano tra massaggi, idromassaggi e sauna. È una parata di tamarri arricchiti (il conte d’Albafiorita), di bauscia milanesi (il marchese di Folimpopoli), di burine coatte (Ortensia e Deianira). Caratteri, più che personaggi, di una società neocapitalista che ha alle radici pulsioni ancora provinciali. Rispetto a questi, le figure di Mirandolina e del misognino cavaliere di Ripafratta hanno maggior spessore e sono relativamente più sfaccettate.
Lo spettacolo è ben articolato nello sviluppo dell’azione, asseconda il ritmo serrato e incalzante della musica, inanellando con inventiva gag e trovate divertenti, e risultando accurato e preciso nella recitazione.

L’impianto scenico di Massimo Checchetto è scarno e contribuisce al dinamismo della rappresentazione. È una sorta di scatola rotante che di volta in volta mostra i diversi ambienti: la zona relax, la lavanderia, la camera del conte. Funzionali al contesto i costumi di Carlos Tieppo che, quando i personaggi non girano in accappatoio o in mutande, sono opportunamente stravaganti ed eccentrici.

Dal podio dell’Orchestra della Fenice, John Axelrod garantisce una conduzione brillante ed estroversa, ma soprattutto puntuale nell’assecondare la scrittura insidiosa di Martinů, disseminata di asimmetrie ritmiche e fraseggi irregolari. La tensione e il vitalismo prevalgono decisamente sulla varietà dei chiaroscuri e, a tratti, si vorrebbe più leggerezza in certi momenti lirici, ma non c’è dubbio che la direzione di Axelrod faccia quadrare i conti con ampio attivo.

In scena tutti sono credibili e spigliati nella recitazione. Silvia Frigato è una Mirandolina minuta fisicamente e dalla voce non voluminosa, ma molto agile: il suo repertorio d’elezione è non a caso il barocco. Ha un fraseggio espressivo, sapido, e un accento sempre giusto.
Le prove di Marcello Nardis e di Bruno Taddia, rispettivamente il conte d’Albafiorita e il marchese di Forlimpopoli, si impongono più per la divertente impronta “vanziniana” che per le doti canore. Il cavaliere di Ripafratta delineato da Omar Montanari si distingue invece dagli altri nobili “tamarri” non solo per la caratterizzazione più misurata, ma anche per le qualità di una voce ben timbrata e corretta nelle emissioni.
Ineccepibile Leonardo Cortellazzi come Fabrizio e adeguati i contributi delle due “comiche”: Giulia Della Peruta (Ortensia) e Laura Verrecchia (Deianira). Completa la locandina Christian Collia (servitore del cavaliere).
Gran successo per tutti.

Gran Teatro La Fenice – Stagione Lirica e Balletto 2015/2016
MIRANDOLINA
Opera comica in tre atti.
Libretto e musica di Bohuslav Martinů
dalla commedia La locandiera di Carlo Goldoni

Mirandolina Silvia Frigato
Ortensia Giulia Della Peruta
Dejanira Laura Verrecchia
Fabrizio Leonardo Cortellazzi
Il conte d’Albafiorita Marcello Nardis
Il cavaliere di Ripafratta Omar Montanari
Il servitore del cavaliere Christian Collia
Il marchese di Forlimpopoli Bruno Taddia

Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore John Axelrod
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Fabio Berettin

Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice nell’ambito di Estate Fenice 2016
Venezia, 1 luglio 2016

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